La vita lontana
di Paolo Pecere, LiberAria, 297 pp., 16 euro
Elio e Dora si sono conosciuti da ragazzini, a scuola. Lei era quella con i capelli blu, lettrice; lui aveva già la riga a destra, politico. Alle feste dell’Unità, lui era factotum e lei sistemava la libreria. Si sono innamorati con calma e hanno sbrigato, una alla volta, tutte le pratiche per diventare una famiglia tradizionale inusuale. Colta, garbata, informata, sinergica ma non compatta, movimentata dalla precisa intenzione dei fondatori di non fondersi mai, rimanere distinti senza mai separarsi. Lui imprenditore dei rifiuti, lei professoressa senza allievi, due gemelli (Livio e Marzio), la casa a Roma vicino all’Aniene, il parco senza lampioni alla fine del sentiero condominiale, i fine settimana fuori porta in cerca di pace e verbi di azioni semplici, tantissimi libri, un ritratto di Antonio Gramsci e l’icona della Madonna di Vladimir appesi alla parete del letto matrimoniale. Anche se è di Elio la responsabilità del corso delle cose, è Dora che racconta, lei è che capisce, suoi sono il volante e il freno: Elio va a giocare a tennis e lei resta sul divano a preoccuparsi; Elio va a passeggiare nel parco e lei fa amicizia con la vicina di casa; Elio semplifica e lei complica; Elio l’asseconda mentre lei parla “al modo verbale del rimpiantino” (avrei dovuto, dovrei, dovremmo). E’ Dora ad accorgersi quando la loro idea di rimanere distinti e uniti diventa una crepa ed Elio vuole andare dall’altra parte del burrone e tornare solo ogni tanto, ma esserci sempre. E’ Dora a scoprire, per prima, che l’essenzialità alla cui ricerca Elio sceglierà di dedicarsi, trasferendosi in India, tornando a casa ogni tanto, è introvabile. Per questo non può che lasciarlo andare. La vita lontana che racconta Paolo Pecere facendosi Dora (nota collaterale: in pochi altri romanzi recenti c’è un personaggio femminile altrettanto credibile, invaghito di niente ma disponibile a tutto, robusto, inapplicato alla retorica del genere) è un modo di lasciarsi senza abbandonarsi, di accogliersi senza approvarsi, di capirsi senza intendersi. Prima di andare via, lui le dice: “qui ci teniamo tutto, non siamo niente”. Dora non accusa il colpo, si tiene tutto: la casa, Livio, Marzio, l’occidente, la televisione, i libri, l’occlusione dei canoni, la vicina di casa, il fiume, l’attesa di lui che torna per fare l’amore e “sa di temporale”. I figli cadono, fanno a botte, si ammalano, guariscono, chiedono del papà, scrivono al papà, quello li rimprovera quando hanno ambizioni ordinarie, mantiene la promessa: esserci. Poi muore e diventa un fantasma e solo allora lui e Dora riprendono a parlarsi davvero e ripristinano quel loro progetto iniziale, d’essere uno e un’altra o una e un altro, lui affacciato e lei seduta. Livio e Marzio diventano adulti, uno a forma di abbandono e l’altro a forma di cura. Si separano anche loro, si perdono, smettono di essere fratelli. Poi Dora segue Marzio in Indonesia, porta con sé poca roba e La Critica della ragion pura di Kant, Livio segue lei che ha seguito Marzio in Indonesia e siccome a quel punto hanno tutti mosso un passo fuori casa, verso un punto di raccolta e non di fuga, da tristi trinitari isolati diventano una famiglia.
LA VITA LONTANA
Paolo Pecere
LiberAria, 297 pp., 16 euro
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