L'eterna illusione dello scrittore
Le (svariate) verità di Roberto Bolaño su quelle creature convinte a priori, pertanto deluse a posteriori, che la letteratura trascini le folle
Romanzo svelto e repentino, istantaneo ma sempre attento, sempre sul chi va là, calibrato e tenuto a briglia, un cerino e un incendio, un lampo e poi pioggia, tra l’altro ricchissimo, con due o tre klinàmen narrativi ridondanti e per nulla necessari, ma in certi romanzi non sono forse più importanti le digressioni che le progressioni? Romanzo sofisticato e intrattenitore, divertente e colto, sfuggente e sfuggito, in corsa sempre e inquadrabile mai, rebel & insoumis & sfacciatello, gratuito eppur centrato, bizzoso e adelantista, sì! Ma con juicio. Questo lieto carnevalone porta il titolo di “Consigli di un discepolo di Jim Morrison a un fanatico di Joyce”, Roberto Bolaño e A. G. Porta l’hanno scritto e Sellerio (nel 2007) l’ha pubblicato. A un certo punto, capitolo 8. Si legge: “C’è stato un periodo in cui, povero me, ho creduto che la letteratura avrebbe trascinato le folle, come il rock, e che noi giovani che allora cominciavamo a pubblicare su riviste marginali o a fare letture in pubblico cui assistevano solo i nostri amici, avremmo avuto uno status simile a quello dei divi del rock. Ci saremmo conosciuti tutti, come si conoscono tra loro i divi del rock, e avremmo fatto letture cui avrebbe assistito molta gente. Gli editori sarebbero stati amici nostri o qualcuno di noi, più o meno come Ferlinghetti e il City Lights Books. Il fatto è che non sapevamo nemmeno mettere gli accenti come si deve, per non parlare della prosa che alcuni perpetravano. Suppongo che non sia solo tragico o comico, solo penoso. (…) Ce ne siamo accorti abbastanza in fretta, almeno il gruppo in cui mi muovevo. Alcuni si sono messi a studiare il catalano, altri hanno cercato lavori fissi, qualcuno è partito per Madrid, per l’Andalusia, per l’estero, e non se n’è più saputo niente. La letteratura, intesa in quel modo spropositato, oltre che stupido e teneramente ignorante, se vi si posa uno sguardo compassionevole, era la non assunzione di nessun ruolo. E così non si può vivere”. Osanna per Bolaño, che dice la verità. Anzi, svariate verità.
La prima: gli scrittori sono degli illusi, ossia creature convinte a priori, pertanto deluse a posteriori, che la letteratura trascini le folle. E quando mai? Sì, certo, in tempi remoti in cui il terreno del libro era forse meno conteso ci sono state opere che si sono meritate il privilegio di caratterizzare un’epoca, fornendole – diciamo così – il corpo simbolico per durare oltre se stessa, tuttavia, in generale, il lavoro della letteratura non è mai suscettibile di ovazione collettiva, non è capace di influenzare in maniera rilevante o di rimorchiare interi popoli, e quand’anche un’opera abbracci l’umanità e il mondo, sarà sempre poco più che un sussurro all’orecchio.
La seconda: gli scrittori sono lontani dalla realtà, e con realtà non intendo quel palinsesto tridimensionale di ventiquattro ore e trecentosessantacinque giorni che reca all’animo umano infiniti dolori materiali (la povertà è, della realtà, l’unica cosa che uno scrittore comprende bene, vivendola riccamente) ma intendo tutto il resto, cioè i meccanismi della realtà, le sue leggi, le sue regole. Uno scrittore è vittima di illusioni donchisciottesche perché è un essere umano ad alto tenore paranoico il cui codice per decifrare il mondo è la letteratura, cioè un fenomeno che non riguarda, come si diceva, le folle, i più.
La terza: gli scrittori hanno una sproporzionata opinione di se stessi, il che non è generato da presunzione, ignizioni dell’ego o vanteria sanguivora, ma dal contrario esatto, da una deriva malinconica dell’isolamento, dell’insicurezza, dal fatto di stare col culo su una sedia prendendo l’aria per il bavero e credendo di capire cose che non si capiscono, è il petto-in-fuori di chi non ha petto né cuore ma solamente – appunto – culo su una sedia, e che si colpevolizza di ambire oscenamente senza che i propri meriti siano misurabili.
La quarta: gli scrittori sono ridicoli perché credono nelle parole, non nei fatti come tutti, e infatti hanno occhiaie profonde, malattie della forma, idiosincrasie della sostanza e utilitarie sbiadite.
Però gli scrittori sanno anche dare smisurate prove di coraggio e nobiltà. Per esempio Giulio Mozzi – uomo morale, uomo erculeo – in una recente intervista ha detto che la sua più grande qualità da scrittore è aver smesso di scrivere.
E confesso che per un attimo, mentre un raggio di sole miracoloso, inverosimile e non necessario (alle parole dette e a tutte le parole scritte) attraversava la vetrata del bar in cui stavo leggendo e si posava sulla mia mano, ho chiuso gli occhi, ho preso un respiro, e accidenti, sì, io l’ho invidiato.
Il Foglio sportivo - in corpore sano