Fëdor Dostoevskij

La bellezza non è un'esperienza rettilinea

Marco Archetti

Non sta in posa e non si rivela meccanicamente. L'ho capito leggendo "Delitto e castigo"

Chi ha detto “bellezza”? Il mio amico Nicola. Bibliofago patologico come me, ieri mi ha scritto: “Week end di immersione negli oceani di bellezza di Dostoevskij”. Si riferiva a “Delitto e castigo”, uno dei dieci libri dell’umanità. Uno di quei libri per cui è valsa la pena essere al mondo col dono dell’alfabeto. Uno di quei libri che scoprire a quarantacinque anni è un regalo incongruo, splendido, quasi un’occasione di seconda adolescenza, anzi, di seconda vita, un riscatto dalla morte tout court. Ma nuotare è così facile?

 

Ogni grande romanzo è un mondo procelloso, abissale, infatti ogni volta che mi sono fatto travolgere dalle onde di una grande Opera della Letteratura non ho mai provato la sensazione della quiete, seppur ne stavo cavando gioie inenarrabili, e questo perché la gioia, si sa, non deriva in linea retta dal piacere ma dalla conquista. Così ho ripensato a quando io ho letto “Delitto e castigo”, il romanzo che più di tutti, per lungo tempo, mi ha ricattato. Confesso di averlo letto per intero dopo due false partenze, la prima fu a diciott’anni. Ci provai, tenni duro, ma alla fine lo mollai; arduo il cimento, acerbo il mio intelletto. La seconda fu a ventidue. Si trattò, deliberatamente, del tentativo di superare un senso di inferiorità: avevo la netta sensazione di non aver fatto niente per meritarmelo. Quel libro era una vertenza inevasa, una domanda aperta cui non ero stato capace di rispondere, la conclamata denuncia del mio svantaggio nei suoi confronti. Non era forse un’opera sublime? Non la nominava chiunque, sdilinquendosi tra le aperivanvere del sabato sera? “Ah, ‘Delitto e castigo’… Uh, Dostoevskij,… Ih, che meraviglia…”, e giù a squittire ammirazione. Arrivai alle boe di metà romanzo ma non osai proseguire. Quel libro (come ammetterlo senza farmi prendere in giro?) mi aveva spossato e irritato. Le circonvoluzioni del pensiero di Raskol’nikov, oscure e vertiginose, mi avevano ubriacato e si ritorcevano ancora contro di me, facendomi sentire pesto, con la labirintite all’anima.

 

Solo la terza volta è stata quella buona: quella in cui ho attraversato le spirali psicologiche, le bufere interrogative e i martelli morali che il romanzo impone, senza opporre più resistenza, anzi, fidandomi di questo russo così terreno e così celeste che, tra una perdita al gioco e un nuovo capitolo del suo serrato epistolario di suppliche economiche, aveva vinto contro la materia ossessiva dell’esistenza. Quelle parole perenni come la pietra, così giuste che sembravano calate da una dimensione dell’esistenza più vasta e verticale della mia, mi facevano capire una volta per tutte che la bellezza non è un’esperienza rettilinea, di ascesa semplice o di decollo automatico. E che quando qualcuno si precipita a dire “uh, la bellezza…” è vittima di un equivoco da grande mostra, quello per cui ci si mette in fila col panino vegano in attesa di accedere all’ennesimo Impressionista di cui il nostro frigo è già calamita-decorato ma in realtà non godendosi nulla, al massimo commuovendosi per se stesso, cioè di ben poco, o per la forma di se stessi in genuflessione adorante. E’ questa la ragione per cui detesto i benintenzionati militanti – tra le cui file anch’io sono stato (brevemente) di leva – in attesa del turbine sentimentale della bellezza in saldo museale: perché la bellezza non sta in posa e non si rivela meccanicamente, accendendosi come il motore di un’utilitaria. La bellezza, semmai, sorprende, spiazza e impone sempre un’altra sintassi – i dadaisti dicevano che dada era bello come l’incontro casuale di un ombrello e di una macchina da cucire. La bellezza non sta lì a farsi contemplare: quando dici “bellezza” è già sparita. La bellezza è intravedere, intuire che qualcosa di superiore si cela in ciò che hai davanti e non si fa prendere. La bellezza è fare di tutto e non averla. Le beatitudini fisiche, quelle sì sono immediate! La gioia del corpo, l’esultanza dei sensi, l’amarena di un certo gelataio… Ma tutto il resto no, va conquistato. E a proposito di romanzi: è poi giusto emendare il rapporto con un grande libro di tutta la complessità, dei momenti di fastidio, di noia e di odio? Di un capolavoro non si prende quel che vogliamo. Un capolavoro lo si accetta e gli si cede, docili alla sua tirannia. Comanda il capolavoro, non noi. E il capolavoro non si presenta mai allo sportello dell’opinione pubblica, ancorché leggente.

 

Jules Renard, ne “Lo scroccone”, scriveva: “Ho timore del mare, della meraviglia di questo mondo che ha causato i massimi deliri…”.

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