La biografia dettagliata di un autore “inedito”

Matteo Marchesini

Cesare Panizza e il libro su Nicola Chiaromonte, liberalsocialista sui generis o meglio libertario singolarmente religioso

Tra i tanti Platone del Novecento, due si oppongono frontalmente: quello “totalitario” di Karl Popper e quello “scettico” di Leo Strauss. All’interpretazione straussiana si avvicina Nicola Chiaromonte sottolineando la natura dialogica del pensiero platonico, e ribadendo che il padre della filosofia non è un idealista in senso moderno, ossia non s’illude di realizzare le proprie utopie come fossero programmi elettorali e come se la società fosse una materia da forgiare: la “Repubblica”, ricorda, è una “statua di parole”, un modello da contemplare che può nutrire la condotta solo mediatamente e per vie incalcolabili. I greci, a differenza di noi, sapevano che un confine sacro separa il pensiero e l’azione, la cultura e quella politica davanti a cui la cultura spesso non è in grado d’intervenire. Come il vecchio Platone, il giovane Chiaromonte capisce che in certi momenti storici è ragionevole “abbandonare ogni speranza di risultati immediati e massicci”. La nota è del 1935, lo stesso anno in cui scrive che non si tratta “d’imporre Socrate a Caligola, Pericle ad Attila”; semmai “l’esistenza di Socrate diviene (…) fonte d’autorità morale la cui energia non si misura dal fatto se i Caligola e gli Attila la riconoscono, ma è piuttosto espressa dalle parole di Antigone: So che piaccio a quelli cui devo piacere”.

 

Con questa citazione, opportunamente, Cesare Panizza apre la sua biografia chiaromontiana da poco uscita per Donzelli. Liberalsocialista sui generis  o meglio libertario singolarmente religioso, Chiaromonte consegnava allora lungimiranti analisi del fascismo ai “Quaderni” di Giustizia e Libertà, movimento che frequentò nell’esilio parigino e che abbandonò poi con altri giovani legati a Caffi. Sbarcato in America nel ’41, scrisse su “Partisan Review” e “politics”, influenzando intellettuali come Dwight Macdonald e Mary McCarthy e facendo da ponte tra i loro circoli e Camus. Infine, tornato in patria, divenne il critico teatrale del Mondo di Pannunzio e redasse con Silone Tempo presente, un mensile che contestò duramente le dittature comuniste senza risparmiare la “malafede” occidentale.

 

Il suo tentativo di ripensare l’eredità greca alla luce delle tragedie novecentesche è paragonabile a quelli di Hannah Arendt e Simone Weil. Come la Weil impegnato nella guerra civile spagnola, Chiaromonte ragionò sull’incapacità moderna di sottoporre a un “limite” i comportamenti e di esaminare eticamente la “forza”; e prima della Arendt colse la vocazione autofagica dei totalitarismi. Anche lui radunò attorno a sé gruppi di amici con cui leggere i classici. Credeva nelle comunità strette ma non settarie, modelli socratici chiamati a prefigurare una società giusta: perciò la sua opera è fatta soprattutto di lettere, cioè di parole rivolte a concreti esseri umani, in netta opposizione alla lingua per tutti e per nessuno dei mass media; e perciò, come ha detto Nadeau, è stato per molti un maestro segreto, “anonimo”. Le comunità a cui pensa Chiaromonte sono evocate dalla misura delle antiche città italiane (che al contrario delle metropoli statunitensi non sciolgono i volti in una folla indistinta) e dalle scene teatrali. Il teatro riporta la vita al nudo nocciolo delle questioni essenziali come non può fare il romanzo, che insegue invece la “vita autentica” nelle peripezie quotidiane degli individui, e che dopo la Grande guerra, caduta la fede nel progresso, entra in crisi perché queste peripezie si riducono a casi insensati: casi che appena diventano enormi eventi storici, non credendo più in nessun valore atemporale, idolatriamo solo in quanto “fatti compiuti”. Come si vede, critica estetica e critica politica si saldano qui perfettamente: e sul piano della seconda al romanzo corrisponde lo stato, forma informe che ormai può solo sfaldarsi o ridursi all’assurdo del fascismo. Il romanzo in senso proprio, però, sa almeno criticare la Storia che rappresenta, come insegnano lo Stendhal della “Certosa” e il Tolstoj di “Guerra e pace”: sa mostrare, cioè, che il terreno per eccellenza del contingente non è il regno della ragione né della fede, dato che tutte le volontà e le azioni umane vi si disperdono in un imprevedibile pulviscolo. Allo stesso modo la Storia ha disperso i saggi di Chiaromonte. Gli editori rifiutano di ristamparli perché le sue idee sono radicali ma non esibite, esattamente come il suo stile spoglio, e dunque una cultura balcanizzata dai brand non si accorge del valore né delle une né dell’altro.  Così ci troviamo davanti a un caso curioso: Donzelli – peraltro coi soldi di Paolo Marzotto – pubblica oggi la biografia dettagliata di un autore “inedito”.

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