Andar per librerie insegna tanto anche agli scrittori
Vedere cosa apprezzano le persone diverse da noi. Cosa sfogliano. Da cosa vengono attratte. Quali libri prendono e poi posano
Va bene, qui si ama molto il cinema, e lo si ama al punto che lo si è considerato alla stregua di una seconda letteratura, o meglio, un’esperienza vicaria di consolidamento. Negli anni, John Ford ha rafforzato l’amore per Tolstoj, “Boyhood” mi ha invogliato a ributtarmi su “Martin Eden” e “Morto uno Stalin se ne fa un altro” ha rintuzzato la vecchia passionaccia per Dovlatov impreziosendola di un retrogusto Bennet. Non solo: qui si ama la sala buia, e la si ama per davvero, senza sentimentalismi o puritanesimi ma anzi, con tutto il corpo in giulebbe. Si ama uscire di casa (atavismo che ancora, un senso, ce l’ha), mangiare qualcosa e pregustare l’ora e mezza (o le due; perfino le tre; financo le tre e rotte!) in cui ci si ritroverà irretiti su una poltrona, condotti colà da una frase argutissima (letta su questo giornale, dove sennò?) di Sua Mariarosità.
Si ama, inoltre, proprio il rituale: camminare con l’acquolina verso la sala – cinemino o multiplex fa lo stesso, l’amore non discrimina – purché risponda alle tre ineludibili condizioni: 1) ben tenuta, 2) con audio strabiliante, 3) con schermo vasto, magari frequentata da un pubblico variegato su cui, in attesa dei trailer, spettegolare – inesausto anche l’amore per la narrazione orale, ma ci vuole la compagnia giusta. Si ama molto il cinema, sì, eppure ultimamente l’amore è messo a dura prova: imperversano i nevrastenici col gomito imbizzarrito che vengono a piazzarsi proprio vicino a te; quelli che sbuffano e ogni tre secondi controllano lo smartphone generando ripetuti fiat lux biblico-stroboscopici; le signore che rispondono alle chiamate solo dopo venti minuti di mostruosa vibrazione e sbraitano a bassa voce con un ringhio gutturale demoniaco che, ripiegate, rivolgono alla borsetta aperta sulle loro gambe; oppure gli stropicciatori di carte, che impiegano un’ora a sfilare un biscotto da un tubo di carta stagnola, per tacere delle coppiette che, partiti i titoli di testa, commentano ogni battuta degenerando in interminabili conversazioni collaterali. Sono queste le categorie che, pur continuando a frequentarle, uccideranno le sale.
Che fare? La soluzione – mi sono detto – è frequentare con ancora maggior gioia l’unico posto in cui le persone non danno fastidio e l’amore non subisce colpi mortali: le librerie. Quali? Tutte! Le grandi, le medie, le piccole, le belle e le brutte, le antiche e le nuove, le anguste e le spaziose, senza distinzione ideologica. E davvero, quando dico tutte intendo tutte, anche quelle teoricamente peggiori, le librerie-supermercato che vendono solo bestseller – un grazie: ci tengono tutti in piedi – o le Librerie per Donne Vegane dell’ala civatiana, cioè le fusion-food che offrono il lunch, le sottoscrizioni per l’aperiYoga e ostentano brioche di crusca vuote, bustine di fruttosio, cappuccio di miso col cacao di carruba. Guardare la gente nelle librerie è sempre un passatempo divertente, soprattutto se abbinato al giochino (da fare in due) del “chi-compra-cosa?” o del “secondo-te-lo-regala-o-lo-legge?”.
Osservare la gente in libreria è, tra l’altro, istruttivo soprattutto per chi scrive. Vedere cosa apprezzano le persone diverse da noi. Cosa sfogliano. Da cosa vengono attratte. Quali libri prendono e poi posano. Quali sbirciano di nascosto e poi comprano. Certo, è sconsigliabile farlo quando si ha un proprio libro appena uscito ed esposto lì, ben visibile (gli unici tre giorni in cui lo sarà: goderseli standosene a casa, mi raccomando, evitare di rovinarseli andando sul posto a osservare la gente che lo schifa). Secondo me gli scrittori dovrebbero frequentare di più i lettori, e non tanto i lettori che leggono forte, ma i lettori che leggono debole, che leggono casuale, che ciondolano in libreria perché hanno accompagnato qualcun altro, che ci entrano senza pregiudizi e senza retroterra, nudi, vergini, crudi. E non solo per scrollarsi di dosso l’idea che tutta l’altra gente la pensi come noi e adotti i nostri criteri (per questo ci sono già le elezioni) ma perché imparare osservando è una delle più grandi lezioni, sia per chi legge, sia per chi scrive, sia per tutti gli altri che vegetano per inerzia cardiaca. Osservare lo spettacolo fisico dei lettori – deboli o forti che siano – è ormai il mio primo cinema, un’esperienza vicaria della conoscenza delle cose, perché li amo e loro esistono, resistono, coesistono, e io provo per costoro una tenerezza grata.
Poi a un certo punto ho visto uno che comprava tre-copie-tre di “Meglio liberi”, il libercolo di Di Battista, e da quel pomeriggio, contando anche la giornata di oggi, è un mese che non rientro a casa. Vagherò ancora a lungo – orfano e tradito – per le strade del mondo.
Il Foglio sportivo - in corpore sano