Il gioco di maschere eterne nelle due Italie separate
Le parabole speculari del Partito d’Azione e del Fronte dell’Uomo Qualunque
Quello delle due Italie separate da una variabile faglia geografica, storica, socioculturale e infine antropologica, è un topos del nostro discorso pubblico che riduce anche la più instabile cronaca politica a un gioco di maschere eterne, e nasconde la concretezza dei fatti sotto un’ipertrofia simbolica per cui tutto diventa nota a margine ai classici e alla commedia dell’arte, a Manzoni o Flaiano. Particolare fortuna ha avuto la versione proposta da Carlo Levi nell’“Orologio”, dove un’Italia dei “produttori” (poco importa se cafoni o ricchi, se costretti a sfiancanti fatiche fisiche o impegnati in un lavoro creativo) si oppone a un’Italia di parassiti chiamati “Luigini”, dal nome del podestà immortalato nel “Cristo si è fermato a Eboli”. Qualsiasi cosa facciano, i produttori o “contadini” sono sempre un po’ degli artisti autonomi; mentre nella piccola borghesia “ameboide” dei Luigini rientrano i burocrati, i letterati cortigiani, la massa che serve o che comanda.
La visione leviana non è economica, è populistica ed estetizzante: ma si tratta del populismo di un azionista deluso. E proprio per descrivere le parabole speculari del Partito d’Azione e del Fronte dell’Uomo Qualunque lo storico Alberto Guasco intitola oggi alle “Due Italie” un suo studio edito da Franco Angeli. Questi antipodi elettorali nacquero e si spensero entrambi nel quinquennio 1943-’48, “aperto con il conflitto mondiale e chiuso con la guerra fredda, segnato da un’opzione antifascista iniziale e da una anticomunista finale”. Il PdA fu elitario e nordico, l’Uq popolare e sudista. L’uno rappresentava una politica sostenuta da massicci piedistalli etici, l’altro sbandierava il primato dell’amministrazione, oscillando tra un liberalismo tecnocratico e un autoritarismo che dopo il ’45 non osava più dire il suo nome. Da una parte c’erano i dirigenti-professori alla Parri, che Levi ritrae come un pallido cireneo assediato dalle mosche della tattica governativa, negativo di quell’anti capo più grigio ma più pratico che Brancati riconoscerà in De Gasperi; dall’altra parte stava un’opinione pubblica informe, bifronte, coi tratti di Pasquino ma anche dell’Azzeccagarbugli, di Masaniello ma anche di Franceschiello, insomma un Arlecchino pronto a servire molti padroni.
Il suo bersaglio più tipico è la presunta ipocrisia dei capi azionisti. Del resto questi capi, essendo quasi tutti degli intellettuali, pensano già da soli a criticarsi: s’interrogano sul proprio virtuismo, sul volontarismo, e sull’eclettismo liberalsocialista che ha indotto il loro patrigno Croce a denunciare nel PdA un ircocervo politico. Fu la sua cifra “onesta ribellione agli imbrogli o moralismo declamatorio?”, chiede Calamandrei nel ’51. La diaspora è ormai definitiva, la polarizzazione ha decapitato le terze forze: ma resta appunto la suggestione dei caratteri atemporali. Se gli azionisti hanno alle spalle Gobetti, nel futuro a saccheggiarne le memorie sarà una sinistra che a fine ’900 insegue improbabili quarti di nobiltà e improbabili aventini civili da derive partitocratiche o mediatiche in cui è irrimediabilmente compromessa. Se i qualunquisti vengono dal Prezzolini apota, e dai suoi figliastri longanesiani o montanelliani, a fine ’900 il loro spettro si reincarnerà nella Lega, in una parte del centrodestra e nel suo rovescio manipulitesco. Finché oggi la dicotomia si ripropone tra i democratici più rigidamente europeisti e i demagoghi di un’antipolitica che però grida “abbasso tutti” dai banchi del governo.
Ma se di antipodi storici si parla, c’è un paradosso da tenere presente: PdA e Fronte pescavano nello stesso bacino dei ceti medio-bassi liberaleggianti e incerti. Secondo Bobbio “gli azionisti si ritrovarono ad essere respinti dal grosso della borghesia che non voleva la restauratio e dal grosso del proletariato che non voleva rinunciare alla rivoluzione. Si trovarono invece faccia a faccia con la piccola borghesia che era la classe meno adatta a seguirli”: ai Levi toccavano cioè proprio i Luigini come elettori necessari quanto impossibili. Forse nella storia repubblicana l’impossibilità è stata superata solo a tratti, per brevi incursioni corsare, dalle lotte e dalla retorica di Pannella. E a proposito di retorica. Giannini il teatrante, il giornalista delle grandi tirature invidiate dalle élite, riempiva le pagine dell’Uomo Qualunque di grevi calembour contro gli avversari, storpiando ogni giorno i loro nomi di “laureatissimi fregnoni”: così il primo presidente del Consiglio dell’Italia liberata diventava “Fessuccio Parmi”, Salvatorelli “Servitorelli”, Calamandrei “Camaleontei”. Tutto questo vi ricorda qualcosa?
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