recensioni foglianti
Screwjack
Hunter S. Thompson
Bompiani, 64 pp., 10 euro
A Hunter S. Thompson piacevano alcol, droghe e fucili, ma solo l’ultima delle tre l’ha ucciso. Una fucilata alla testa. La sua morte ancor più del giornalismo letterario ha impoverito Johnny Depp che, per esaudire l’ultimo desiderio dell’amico, ne ha sparato le ceneri con un cannone per tre milioni di dollari. Nella lettera d’addio, “Football Season is Over”, pubblicata su Rolling Stone, dei suoi sessantasette anni scrive la più spietata delle recensioni: “Sono 17 anni di troppo. Sono annoiato. Uno stronzo”, e “comportati come quelli della tua età. Rilassati – non farà male”. Non era tipo da yoga.
Si dice che se riesci a ricordare gli anni Sessanta, non li hai vissuti veramente. HST è un’eccezione, basta leggere quel che si dice di lui: cane sciolto, simbolo della controcultura americana, reporter allucinato, innovatore, figura di spicco underground. E’ stato il padre del gonzo journalism (il suo biografo, William McKeen, definisce questo stile “metanarrativo”: come ottieni il pezzo è il pezzo), etichetta poi confluita nel new journalism, assieme a Gay Talese, Tom Wolfe, Joan Didion. Della sua vita sappiamo quel che ha voluto lui. Detestava Richard Nixon (ne scrisse un coccodrillo: “Appunti sul trapasso di un mostro americano”), detestava gli hippie, detestava l’autorità (la lista di licenziamenti supera quella dei giornali per cui collaborava). “Preferirei chiedere l’elemosina, che lavorare per un giornale che non rispetto”, disse per farci morire d’invidia. Infatti scriveva cose gustose per soldi quando aveva senso farlo, cioè quando i reportage diventavano libri, film, materia di culto. Paura e disgusto a Las Vegas, il libro di cui vivrà di rendita, venne rifiutato (insieme al conto spese) da Sport Illustrated e pubblicato in due parti su Rolling Stone nel novembre 1971. L’anno dopo diventa un libro e, nel 1998, un film con Johnny Depp (e poi un’amicizia, e poi le cannonate al chiaro di luna). Tutto questo è noto. Lo sono meno i tre racconti pubblicati da Bompiani e tradotti da Marco Rossari, Screwjack. Li leggi e pensi a quanto sono invecchiati. Lo stile che era innovativo ora è comune. Nel primo dei tre racconti il protagonista è chiuso in una camera d’albergo a farsi di mescalina e a un certo punto ha sete e non vuole disturbare il portiere per farsi portare la birra in camera. Voi ce la vedete Loredana Bertè da sobria porsi il problema? Eppure i tempi neopuritani lo hanno riattualizzato. Nel secondo racconto, Morte di un poeta, il protagonista tira un pugno alla ragazza; poche righe dopo un altro personaggio dice che le bambole gonfiabili hanno salvato il suo matrimonio: può picchiarle liberamente. Nel racconto che dà il nome alla raccolta il protagonista gioca con un gatto fino a ucciderlo. Scene del genere non potrebbero più ricadere nella categoria dell’umorismo nero ma portate al banco dell’imputato come prove di mascolinità tossica. Forse non verrebbero mai pubblicate. E provi nostalgia per quella libertà.
SCREWJACK
Hunter S. Thompson
Bompiani, 64 pp., 10 euro