recensioni foglianti
W o il ricordo d'infanzia
Georges Perec
Einaudi, 178 pp., 18,50 euro
Leggere W o il ricordo d’infanzia è una vera tortura”, scrisse Philippe Lejeune. Vero. Perec lo fece apposta a impilare tutto senza origine, senza fine o inizio, senza botta e risposta, senza sequenze, in disordine, cioè in un ordine solo e soltanto suo, non un bandolo, non un centro, non un perché. Non cedete al tentativo di leggerlo come vi va, a salti, ad assalti, a morsi sparsi: è un libro, mica una mela. Segue la sua linea e anche se traballa e s’interrompe e crolla, è la sola possibile: è la linea che conduce a quello che non può essere scritto, a quello che è mancato, all’assenza. A mancare, in questo libro, è ciò di cui parla: l’infanzia del suo autore. Sì, questo libro è (sembra) un paradosso. Perec non fu mai bambino, perché perse i suoi genitori molto presto e sempre, sempre, nella sua vita e nel suo lavoro, rincorse quegli anni, tentò di ricostruirli, perché lo indolenziva e affaticava e addolorava essere un albero sospeso. Non ci riuscì mai. Qui c’è la testimonianza di quel tentativo, il racconto di come appare la vita, sia passata, sia prossima, quando si diventa consapevoli, dopo anni di ricerca, e d’esistenza, che l’avvenire sta “in una bruma insensata dove s’arruffano le ombre” (così recita la citazione di Raymond Queneau posta in esergo). Lo ha scritto molto bene Matteo Moca sul Tascabile: la vita, a George Perec, appare fatta di pagine bianche, “W o il ricordo d’infanzia è lo sforzo estremo, affidato alla parola e alla letteratura, di scrivere il bianco della propria esistenza”.
“I ricordi esistono ormai, effimeri o tenaci, frivoli o penosi, ma non c’è niente a tenerli insieme. Come quella grafia slegata, fatta di lettere isolate incapaci di saldarsi l’una all’altra per formare una parola, che mi contraddistinse fino all’età di diciassette o diciotto anni”, scrive Perec. E poi, ancora: “I ricordi sono frammenti di vita sottratti al vuoto. Nessun ormeggio. Niente che li ancori, niente che li fissi. Niente o quasi a confermarli”. Il libro è diviso in due parti, che si alternano (si rincorrono?): in una, scritta in corsivo, c’è la storia di W, un luogo immaginario che Perec immaginò da bambino, invaghendosene per sempre tanto da ricostruirlo come fosse una sorta di stato ideale; in un’altra, scritta in corsivo, ci sono i ricordi. Ed è piena di: mi sembra di ricordare, ma forse mi sbaglio; forse andò così o forse, più semplicemente, non andò; questi particolari, come i precedenti, sono tutti inventati. Voi magari leggete i libri per avere, se non risposte, un indirizzo, un orientamento. Con Perec niente del genere (non è così mai, con lui, neanche nel suo “Pensare/classificare”, che è evidentemente un titolo false friend). Perec rimase orfano nella Francia della Seconda guerra mondiale. Sua madre finì ad Auschwitz, suo padre morì dissanguato in un ospedale da campo. Lui era un bambino minuscolo: non c’era. Eppure, tutta la sua vita iniziò lì, rimase segnata da quella perdita. Questo racconta il libro: l’oggetto della letteratura è qualcosa che ci ha originati senza poterci allevare. Prima che potessimo conoscerlo.
W O IL RICORDO D'INFANZIA
Georges Perec
Einaudi, 178 pp., 18,50 euro
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