Chicago
David Mamet, Ponte alle Grazie, 310 pp., 18 euro
Mamet è un paradigma. Che si ama o si odia. E’ divisivo ma non lascia indifferenti. Perché è sempre diverso da quello che ci si aspetta. Ha inanellato nella sua carriera artistica successi in ogni campo – dal teatro al cinema alla saggistica – avendo come matrice unica del proprio talento la scrittura. O meglio, il pensiero arguto e penetrante che diventa scrittura. Folgorante. Mamet, da sapiente drammaturgo, ha raccontato per tutta la vita gli stessi temi, gli stessi ambienti, con una capacita analitica e dissacratoria che ha pochi eguali. E Chicago è stato da sempre uno dei luoghi simbolo del suo lavoro, fin dalla pièce che gli è valsa il Pulitzer – “Glengarry Glen Ross”. Dopo vent’anni dalla sua ultima fatica editoriale è proprio in questa città, che è per Mamet emblema di un certo modo di vivere e di pensare oltre che “casa”, che è ambientato il suo romanzo, a cui dà il titolo e molto altro. Mamet racconta una storia nera, un giallo dai toni decisamente drammatici, che si muove nel mondo del giornalismo a cavallo tra gli anni Venti e Trenta. In una giornata come tante in redazione, Mike e il suo collega Parlow vengono a sapere della morte di Annie, la compagna irlandese del cronista di punta del Chicago Tribune. Da qui parte una vicenda che coinvolge la malavita americana, il mondo del giornalismo con le sue regole non scritte e il rapporto tra colleghi che rappresentano una sorta di famiglia putativa. E’ il mondo degli antieroi quello di Mamet, di chi tenta di resistere strenuamente a una realtà che spinge sempre al limite. Mamet scrive, eccome, e lo fa senza tradire la sua maniera. Anzi, portandola al suo massimo. In un romanzo che è tutto azione, tutto dialogo, tutto botta e risposta. Per questo motivo in qualche punto diventa quasi ostico, perché costringe a un allenamento mentale costante, a non perdersi neanche un passaggio, un beat (perché di questo si tratta – Mamet scrive per essere “detto”, visto e processato). E’ come se questo libro per metà lo dovesse scrivere il lettore, perché è il sottotesto che parla, che riempie di senso le pause e le stilettate che Mamet mette nei suoi dialoghi. Si deve cercare di stargli dietro, stare al passo – o almeno provarci – del suo racconto, del suo modo di vedere le cose. E’ come il jazz, sincopato. A tal punto che in certi momenti si ha la sensazione di avere perso il filo, di non riuscire a recuperare più il bandolo della matassa. Perché quelli che crea Mamet sono veri e propri mondi, personalissimi e identitari, senza mai uscire dal genere o abbassare il livello di guardia. Il paradigma appunto. In questo romanzo c’è tutto Mamet: c’è il politicamente scorretto, c’è l’implicita richiesta di dover essere subito famigliari con personaggi e situazioni, c’è molta America sgangherata e dissacrante. A volte c’è persino la sensazione di stare andando alla deriva, quasi per una involuzione. Ma resiste sempre la sfrontatezza tipica del pensiero vivo. “D’altra parte tutti vogliono andare in paradiso ma nessuno vuole morire”. Odi et amo.
David Mamet
Ponte alle Grazie, 310 pp., 18 euro
Una fogliata di libri