recensioni foglianti

L'ultimo Scià d'Iran

Tatiana Boutourline

Francesco De Leo
Guerini e Associati, 223 pp., 25 euro

La storia, per dirla con Arnold Toynbee, è più di “un dannato fatto dopo l’altro”, ma dai fatti bisogna pur partire. A Mohammed Reza Pahlavi, l’ultimo Scià iraniano, questo lusso è stato accordato di rado. A quarant’anni dalla rivoluzione, prevale ancora la caricatura: un autocrate ferocemente orientale, un po’ despota e un po’ fantoccio, ma sempre e comunque asservito all’imperialismo americano. Nella vulgata siamo ancora al ’74 quando Newsweek lo definì un Frankenstein della Guerra fredda. Era il decennio in cui lo Scià consolidava il suo potere, gli anni in cui il pil cresceva con una media del 10,5 per cento, l’analfabetismo si contraeva dal 67,2 al 44,2 per cento per gli uomini e dal 87,8 al 33,4 per cento per le donne che, dal ’63, votavano in virtù di un pacchetto di riforme che secondo Ruhollah Khomeini non avrebbe mai dovuto vedere la luce. Erano gli anni in cui lo Scià espugnava i pozzi realizzando il sogno di Mossadeq, gli anni da poliziotto del Golfo Persico, (Nelson Rockefeller lo paragonò addirittura ad Alessandro Magno). Erano gli anni, infine, in cui sull’onda di uno Zeitgeist inarrestabile niente di tutto questo contò: lo Scià come Mobutu, lo Scià come Idi Amin, lo Scià come Pinochet, sentenziarono gli intellettuali europei, i vari Michel Foucault, Fred Halliday, Paul Vieille; lo Scià censore, lo Scià torturatore, urlarono gli oppositori, gonfiando i numeri senza immaginare quello che sarebbe arrivato dopo. Ah lo Scià, lo Scià e la sua modernizzazione troppo veloce, dicono ancora quelli che si illudono di aver capito cosa è accaduto in Iran nel ’79 e il tono è quello condiscendente di Rudyard Kipling quando scriveva: “L’oriente è l’oriente e l’occidente è l’occidente e mai si incontreranno”. Perché in questi casi fatalmente qualcuno tira la volata ai luoghi comuni nativisti: è stata la mancanza di autenticità ad affossare i Pahlavi, per assimilare certi valori non si può prescindere dall’Illuminismo e dalla rivoluzione industriale. Dimenticano che l’Iran nel Novecento ha vissuto anche un’altra rivoluzione, quella costituzionale del 1906, non sanno che l’empirismo e il razionalismo pervadono l’opera di Saadi e che la rivoluzione copernicana non sarebbe mai arrivata in Europa se prima non ci fossero stati Biruni, Tusi e l’osservatorio di Maragheh.
Il libro di Francesco De Leo L’ultimo Scià d’Iran (Guerini e Associati) rifugge da queste tentazioni. Ripercorre la parabola di Mohammed Reza Pahlavi senza preconcetti, interpellando storici di rango, testimoni e protagonisti di quella stagione come l’architetto Mehdi Kowsar, l’ambasciatore Amedeo de Franchis e l’ ultima imperatrice Farah Pahlavi. “Fra tutte le società musulmane del Medio oriente l’Iran è quella che ha combattuto più a lungo per la democrazia”, sottolinea Abbas Milani, direttore dell’Iranian Studies Program a Stanford. Negli anni Sessanta, prima delle pressioni di Kennedy, lo Scià sapeva che lo status quo era insostenibile. “Abbiamo bisogno di una rivoluzione dall’alto, se non avviene una rivoluzione dal basso” ripeteva, ma ondeggiò tra consapevolezza e riluttanza, fece molti errori e, come Otello, “amò troppo, ma non con troppa saggezza”.

 

L'ULTIMO SCIÀ D'IRAN
Francesco De Leo
Guerini e Associati, 223 pp., 25 euro

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