Patrizia Valduga è nata a Castelfranco Veneto nel 1953

La vera grandezza di Patrizia Valduga

Matteo Marchesini

La poetessa, una delle ultime scommesse del Novecento baldacciano, esprime un bel paradosso tra la non-vita e la vita vera

Luigi Baldacci, uno dei maggiori critici italiani del secolo scorso, nei suoi ultimi anni parlava della critica come di una “scommessa”. Il controllo rapido e sicuro di vasti territori estetici evitava ai suoi azzardi qualunque sospetto di arbitrio; eppure, essendo convinto che alle arti spetti uno statuto sempre meno certo, riteneva che anche la dottrina più impeccabile debba mostrare a giorno le proprie radici esistenziali, l’urgenza biologica e il personalissimo disagio su cui cresce. Una delle ultime scommesse del Novecento baldacciano fu Patrizia Valduga. Il critico considerava straordinaria l’esperienza di questa poetessa trattata volta a volta come un caso mostruoso o come una “gran traduttrice dei traduttor di Tasso”, e lodava la sua capacità di esprimere massimamente se stessa usando forbici e colla.

 

Infatti la Valduga si libera solo chiudendosi nella prigione dei ritmi altrui, esercitandosi in un inesausto lavoro di “rampino”. Lo si vede bene nel volume delle “Poesie erotiche” uscito pochi mesi fa per Einaudi. Qui l’autrice antologizza la zona più proverbiale della sua opera, dalle quartine amorose alle terzine della “Tentazione”, dalle traduzioni di Racine e Mallarmé al gioco madrigalesco di indugi e clausole lapidarie che scandisce le torture della “Lezione d’amore”. Come ci ricorda la prosa autocritica in appendice, una prosa anche qualitativamente superba, in lei l’equivalenza tra libertà e coazione, il sadomasochismo e il vampirismo riguardano sia il rapporto con la tradizione letteraria sia il leitmotiv sentimentale.

 

Nelle “Confessioni di una ladra di versi”, dove dimostra tra l’altro come Montale abbia annacquato Rebora e De Angelis Raboni, la Valduga divide i poeti del suo genere in “endoparassiti”, ossia imitatori che sconciano l’originale, e in “ectoparassiti”, ossia ladri che prelevano dal modello in superficie senza manometterlo. I primi, col loro tronfio “sono io”, reprimono un effettivo “non sono io”; i secondi, al contrario, si rivelano come lei attraverso una maschera straniera. “Osceno e sacro l’amore delibera / stessa sede per sé e per gli escrementi. / Se non mi leghi io non sarò mai libera, / né casta mai se tu non mi violenti”: questa quartina ipervaldughiana, c’informano le “Confessioni”, è in realtà una somma citatoria di Yeats e Donne.

 

Leggendo le poesie e il commento mi sono confermato in una mia vecchia idea, e mi è sembrato di capire meglio perché la scommessa critica di Baldacci non mi ha mai convinto. Questa posseduta barocca e parnassiana è senz’altro molto abile, e la sua opera cova davvero in sé un nucleo bruciante. Però le due cose si fondono di rado. Più spesso s’incontrano invece sul terreno di compromesso di una levigatezza artigianalmente pregevole, ma tesa al limite di un virtuosistico kitsch. Tuttavia la scommessa diventa accettabile se la si porta all’estremo fin quasi a rovesciarla. Mettiamola così: Patrizia Valduga è più grande dove non è più Patrizia Valduga, cioè dove l’informità del suo desiderio tormentoso, della sua sofferenza famelica e della sua spontanea, funambolica, esponenziale eccitazione linguistica trova una forma a priori in cui accucciarsi ed esaltarsi come un parassita vittorioso.

  

La Valduga maggiore non è la poetessa vampira o cannibale, ma la poetessa traduttrice che polisce trionfalmente l’“Erodiade” di Mallarmé e la “Fedra” raciniana (da cui ha ritagliato la sola parte della protagonista), o quella che in un altro recente volume Einaudi mette a frutto tutti i suoi registri dolorosamente e derisoriamente parodici per darci un credibile Carlo Porta in italiano. “Sono una poetessa in pensione o, meglio, un’ex poetessa, che non ha più niente da scrivere perché non ha più niente da vivere”, ha dichiarato in un’intervista, indicando nelle versioni un’attività consolatoria. Eppure se ci si volge indietro al suo passato di figura tradotta sadianamente di carcere in carcere, alla sua continua messa in scena di una trascendenza deviata e dunque mortifera; se si pensa a quella mancanza d’essere colmata da un bulimico, infernale processo lacaniano d’identificazione, ci si chiede se questo nuovo stato non proponga un bel paradosso che forse è solo una verità comune, almeno nell’irremeabile condizione moderna su cui insisteva Baldacci. La non-vita che tocca all’io valdughiano, al di là dei confini del sadomasochismo e della scrittura a propria firma, non sarà per caso l’unica possibile vita vera?

Di più su questi argomenti: