recensioni foglianti

Suicide Club

Massimo Morello

Rachel Heng
Editrice Nord, 384 pp., 18,60 euro

L’utopia è nel cuore. L’utopia e il cuore hanno un lato oscuro” dice Rachel Heng, giovane scrittrice di Singapore che ha studiato e vive negli Stati Uniti. Rachel sintetizza in modo un po’ esoterico il suo primo romanzo: Suicide Club. Libro che giustifica la sua presenza allo scorso Singapore Writers Festival dove ha partecipato a un dibattito dal titolo altrettanto esoterico: “Speculative Fiction as Moral Compass”. La “Speculative fiction” – narrativa sempre più simile alle serie Netflix, tra fantascienza e fantapolitica, dove l’utopia ineluttabilmente si trasforma in distopia – per Rachel aiuta a orientarsi in un mondo multidimensionale perché lo riflette.

Suicide Club è la storia di un futuro ambientato a New York ma che trova le sue origini nella Singapore contemporanea. “Una società ad alta pressione, dove ciò che ha successo è definito da regole rigorose” la definisce Rachel. In questo mondo indeterminato, alcuni, geneticamente privilegiati, vivono sino a 300 anni. Altri sono condannati a una vita sub-secolare. Altri ancora, i credenti nel sistema e quindi eletti, si avviano verso l’immortalità. Alcuni dei privilegiati, tuttavia, non sopportano il peso di una vita tanto lunga e, soprattutto, lo stile di vita che esige. Divengono “empi”, scelgono di suicidarsi.

Il libro, dunque, è centrato su un paradosso: utopia e distopia si contaminano a vicenda. Per la nuova generazione multipolare che Rachel rappresenta sembra difficile distinguerle e la “speculative fiction” diviene il mezzo per esprimere le sempre nuove fobie di questo “Mondo Nuovo”. Il sogno di una vita secolare o addirittura eterna diviene un incubo perché richiede uno sforzo costante per adeguarsi alle regole che comporta, sintetizzato nell’ossessione del livello di cortisolo, l’ormone che fornisce al corpo energia ma crea stress. Insomma: il limite dell’immortalità è che questa non trascorre tra picchi di felicità o infelicità, bensì in una sorta di atonia esistenziale. Sembra la conseguenza estrema delle mode contemporanee. “Il wellness è divenuto una specie di imperativo morale e uno status symbol di lusso. Secondo la morale contemporanea se non ti prendi cura di te stesso sei una persona terribile”, dice Rachel. “Il wellness diviene una compulsione quando ci puniamo per ottenerlo, quando la cura di noi stessi si focalizza esclusivamente su quello che mangiamo, su quanto corriamo o su quanto è basso il livello di colesterolo”. E’ un’altra forma di mercificazione del corpo (secondo la più “elegante” definizione inglese, di trasformazione del corpo in commodity). “Voglio analizzare ciò che fa l’economia di mercato alla nostra nozione di valore umano”. Il club dei suicidi, d’altra parte, non è un gruppo di ribelli dediti a una causa politica o sociale, bensì un network di persone ricche e potenti che rivendicano il diritto a vivere e morire a proprio piacere. Per loro la morte è il lusso supremo, una forma di edonismo. Forse per un imprinting culturale tanto antico da essere genetico, Rachel Heng riproduce la dicotomia tra un rigoroso ordine confuciano e l’anarchico caos taoista.

 

SUICIDE CLUB
Rachel Heng
Editrice Nord, 384 pp., 18,60 euro

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