Nino De Vita e il dizionario di una terra intraducibile
Le sue poesie sono un evento monumentale. Non c’è parola del dialetto che non abbia una precisa rispondenza con la terra
L’ultima volta che ho visto il maestro Nino De Vita, che come tutti i grandi non vuole essere chiamato maestro, è stato qualche settimana fa nel centro di Marsala, un luogo che è il “tiatru” di tutto ciò che ha scritto, come il suo teatro è anche una persona, Giovanna, l’imprescindibile moglie, col suo sorriso antico e irresistibile (“Nadia, devi venire a mangiare il cuscus di Giovanna! Tutti gli scrittori vengono a mangiare il suo cuscus, porta fortuna!”). Fra un aneddoto e l’altro a un certo punto De Vita ha detto: eravamo in macchina, Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo, e io – e si è fermato. Poi ha aggiunto: e allora ho capito. Nient’altro, nessun aneddoto, non ha raccontato cosa stavano facendo, a quale dei tanti convegni o raduni di quegli anni stavano andando, ha detto solo: allora ho capito. Era lì che il futuro poeta, più giovane dei suoi maestri ma già in linea con loro, poteva sentirsi a casa, accanto a uomini di un altro tempo che hanno, come lui, contribuito a costruire la Sicilia letteraria.
Nino De Vita è schivo e selvatico come la sua lingua e la sua contrada, Cutusìu, anzi in lui la lingua e la contrada sono tutt’uno: non c’è parola del dialetto che non abbia una precisa rispondenza con la terra. Poi, una volta scalfita la ritrosia, si potrebbe stare ad ascoltare per ore i suoi racconti, anche se già letti nelle poesie, anche se già arrivati per mezzo del passaparola fra i suoi estimatori: i racconti vecchi e i racconti nuovi. L’inizio di ogni cosa, per lui, accadde anch’esso in macchina: aveva diciannove anni, e Sciascia gli chiese di accompagnarlo a casa. Erano da Enzo Sellerio e stavano lavorando alla nascita della casa editrice: fra questo ragazzo che si improvvisò timido autista e uno scrittore già monumentale e spesso taciturno, su una Fiat 500, nacque un’amicizia sincera e forte, destinata a durare fino alla morte di Sciascia, nel 1989. Forse è questa la prima caratteristica della poetica di De Vita: la capacità di respirare tutto ciò che si può incontrare sull’isola, perché in lui gli incontri non sono mai frutto di eventi fortuiti e nulla germoglia per caso.
Oggi ha sessantanove anni e le sue poesie, che hanno cominciato a circolare sotterranee all’inizio degli anni Ottanta, sono diventate un evento monumentale che episodicamente si rinnova, un lungo romanzo denso di trame e personaggi. Viene pubblicato, con coraggio e attenzione, da una casa editrice messinese, Mesogea: “Tiatru” è la sua uscita più recente, un anno dopo il fortunato “Sulità”. Sono tredici le storie qui presentate – perché ogni poesia di De Vita è anche, sempre, una narrazione – e più di un filo rosso lega le parti in cui questa raccolta è divisa. Un tema, forse involontario, è il denaro (Me’ patri è uno scarsu, Mio padre è un povero, si intitola la prima parte, e più avanti, la terza, Sordi cu mmia ’un cci nn’haiu, Soldi con me non ne ho) – di cui non c’è né un elogio né un disprezzo, piuttosto un allegro discostarsene. E poi ci sono le apparizioni, un po’ folli e un po’ favolistiche: il lupo mannaro (’u mammaddau: che parola magnifica), l’eremita, il pazzo, il salinaro. I fantasmi di coloro che sono evocati: una suocera malata, i morti della festa del due novembre. La natura: i datteri, il limone, un cielo giallastro e soprattutto la luna (Quann’è chi cc’esti ‘a luna, Quand’è che c’è la luna, senza punto interrogativo, come una litanica imposizione), la luna che rende possibile credere a tutto, anche al fatto che Pasquale, il fratello di Bella, è davvero un lupo mannaro, un mammaddau. E scappa, scappa il piccolo Nino, da Pasquale e da Ggiuvannineddu ’u foddi, Giovannino il pazzo, che mostra il vino e dice che è fuoco, e la forchetta un rastrello, e l’aringa un marranzano. Il lupo e il pazzo sono consapevoli della loro eccezionalità di creature mostruose e chiedono a Ninuzzo di allontanarsi, di mettersi al riparo. Così, in fuga da mostri amici, nella poesia di Nino De Vita, che non a caso scrive anche bellissimi libri per ragazzi, c’è sempre un bambino che corre per le strade e le campagne di Cutusìu. E c’è un uomo adulto, che conosce e celebra l’amore; dice Berengario, la voce dell’ultima poesia: “Pi mmia ci voli amuri. / Cchiuassai ru cumannari, / ru fùttiri, l’agghiùttiri, / pi mmia ci voli amuri” (per me ci vuole amore. / Più del comandare, / del fottere, del mangiare, / per me ci vuole amore). Il testo a fronte aiuta tutti i lettori a capire, eppure giurerei che non c’è bisogno, la bellezza può essere anche solo attraversata per goderne. Già, le parole: “Pizzuti su’, bbatioti, cummattusi, ’i palori, ggilusi” (“Altere sono, villane, complicate / le parole, gelose”), dice sempre Berengario, e per dire quanto sono miserabili usa una parola di liturgica esattezza: sciacqualattuchi. Leggete Nino De Vita per capire il dizionario di una terra intraducibile, per entrare nelle sue notti e nelle sue campagne inenarrate, ma leggetelo soprattutto per gioire.
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