Alla ricerca del senso di ciò che dovremmo essere

Marco Archetti

Un libro e un programma radiofonico per resistere in tempi grami, di collettivo strafalcione, di avvilente ripiego catabolico, in cui è saltato quasi tutto

Male, malissimo, sono tempi di resa, di collettivo strafalcione, di avvilente ripiego catabolico, la negazione di Atene e di Alessandria, perché purtroppo, lo sappiamo, è saltato quasi tutto, ne prendiamo atto ogni giorno, sono saltate l’immaginazione e la reciproca comprensione, la capacità di trasumanar e trasvolar oltre le misere circostanze e di attingere alle profondità arrestando con un perentorio altolà la forsennata torrenzialità del mondo, perfino la voglia di far figli e la necessità di aprire un libro per comprendere il mondo, e non parliamo, poi, di quella di impegnarsi e di mettersi in mezzo anche a costo di sbagliare e di rischiare qualcosa – “osare perdere”, recitava un poeta punk in un’epoca sepolta. Tempi grami, insomma, che si spera ci restituiranno prima o poi il senso di ciò che siamo e che dovremmo essere. Quale sia questo senso, negli ultimi giorni, me lo hanno ricordato perfettamente un libro e un programma radiofonico.

 

Il libro è “Lo scempio del mondo”, l’ultima opera di Johan Huizinga, uno dei più grandi storici del Novecento, che nel 1942, a settant’anni, immaginò, sporgendo uno sguardo dal buio, il futuro della cultura occidentale. “Il tema della civiltà che in quel 1942 vide la vittoria travolgente delle armate della Germania hitleriana” – scrive Lucio Villari, curatore dell’edizione Bruno Mondadori – diventava il nodo aggrovigliato giunto ormai al pettine della storia. Di lì a poco Huizinga venne arrestato e rinchiuso in un campo di concentramento. L’anno dopo fu confinato come ostaggio a De Steeg, presso Arnhem, dove morirà l’1 febbraio 1945”.

 

L’affetto che provo per Huizinga è profondo e risale a “L’autunno del medioevo”, dunque ai tempi della scuola, ma di recente si è rinvigorito grazie all’ammirazione che ho provato nel constatare che, nei giorni più cupi e ciechi della sua vita, mentre il mondo sprofondava nelle ambasce morali e si impregnava di orrore, trovò una forza che io non ho: quella di rivolgersi a Dio. La forza di non cedere all’esistente e alla pialla mortifera della tragedia della Storia, la forza di affidare il destino proprio e dell’umanità intera a una prospettiva di significati infinitamente superiore (non dissimilmente da come si comportò il poeta russo Osip Mendel’stam quando, umiliato e recluso in un campo di lavoro stalinista, inciampò in una latrina e ne riemerse recitando Dante).

 

Nelle pagine di Huizinga risplende un’incrollabile capacità di speranza, quella ferma volontà di “razionalità spirituale”, il bisogno di non essere mai peggiore del nemico e mai accordato alle sue livide istanze – un miracolo di coraggio e di pazienza, di fiducia in Dio, nell’uomo e nelle sue possibilità di riscatto – e ogni volta che le leggo mi porto dietro la loro eco per giorni. Ricordarle qui è il doveroso tributo morale a questo gigante, la cui salma fu accompagnata alla tomba, nel cimitero della città di Rheden, da sole tre persone: la moglie, un parroco e un pastore. In un’altra sua opera fondamentale, “Homo ludens”, Huizinga scrive: “Da molto tempo sono sempre più convinto che la civiltà umana sorga e si sviluppi nel gioco. L’uomo che gioca svolge una funzione essenziale per la cultura”. Già. Cultura. Ma cosa vuol dire cultura? Lo strazio dei tempi ha macellato anche questa parola? Perché poi, in fin dei conti, cultura significherebbe – guarda un po’ – riappropriarsi di se stessi e di ciò che, appartenendo a noi stessi, appartiene anche agli altri. Cultura è saper fare questo balzo, dal particolare all’universale. E’ capire cosa conta e cosa no. E’ stabilire relazioni e legami. Cultura è assenza di dolore. Assenza di morte.

 

E veniamo al programma radiofonico cui accennavo: Fahrenheit, Radio 3. Ma il segmento di programmazione che non perdo mai è “Caccia al libro”: mi piace, mi diverte, e rema contro tutta la torbida politica circostante, capace ormai di aggregare le persone solo attraverso ciò che odiano. Lì, invece, accade il contrario. Lì c’è una comunità. Lì c’è un gruppo di persone che si identificano nel valore di chi è capace di pensare “io ho un libro che tu cerchi disperatamente e non riesci a trovare, quindi sai che faccio? Me ne privo e te lo regalo”. Lì ognuno sa che togliersi un libro è arricchirsi due volte: del gesto che al libro restituisce il significato primo e del piacere di donare un frammento di mondo a qualcuno. Dovrebbero ascoltarla tutti, la gioia di quelli che donano un libro, perché è luce, è un raggio verde, la riaffermazione di Atene e di Alessandria, dunque bene, benissimo, mi dico ogni volta, lo vedi che in fondo resistiamo? E resisteremo, almeno finché ci sarà un tesoro di carta a confutare una latrina.

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