Babij Jar
Anatolij Kuznecov
Adelphi, 454 pp., 22 euro
Un video su YouTube visualizza il numero dei caduti della Seconda guerra mondiale ammonticchiando sulle bandiere degli stati in guerra istogrammi fatti di omini bianchi. Ogni omino sono mille morti, e ci si rende conto che il singolo fronte tra Germania e Russia è stato il luogo di una carneficina che svetta sopra ogni altra della storia militare. Nel centro di questa catastrofe sta l’Ucraina di Kuznecov, il cui racconto comincia all’interno di una trincea scavata nell’orto di casa, dove lui bambino e i suoi si riparano dalle bombe. L’autore mette mano al libro vent’anni più tardi, quando per il potere sovietico la ricostruzione storica di un ucraino era in sé sospetta: si sapeva che molti suoi connazionali – ma non certo lui – avevano creduto di vedere nei tedeschi dei liberatori, e la faccenda non si prestava a esercizi di patriottismo. Inoltre le ricorrenti campagne di antisemitismo di stato rendevano difficile parlare della sorte degli ebrei ucraini. Nella premessa, l’autore descrive l’estenuante processo di revisione del suo manoscritto, con lui a “lottare per ogni frase, mercanteggiare, aggiungere robaccia ideologica”, per vedere comunque l’opera scarnificata da tagli e rimaneggiamenti – nell’edizione integrale di Adelphi tutti visibili grazie a piccoli segni diacritici a inizio e fine di ogni passo censurato.
L’Ucraina trascinata nella guerra era già una casa divisa, come la famiglia di Kuznecov. Il nonno odia i sovietici perché hanno impoverito il paese, e i tedeschi non gli sembrano tanto male, ha sentito dire che “sono ottimi amministratori”. La nonna vive tra l’incenso e le icone e legge gli eventi attraverso le figure dell’Apocalisse. Il padre, russo, ha fatto la campagna di Crimea e sembra tirato giù da un manifesto illustrato del Partito. La madre, insegnante, dice al figlio di non stare a sentire la nonna, perché “gli aviatori volano in cielo e non hanno visto nessun Dio”. A fine estate 1941 lo stallo si è rotto a favore degli invasori, ma “non si sapeva dove fossimo, se ancora sotto Stalin, già sotto Hitler, o in una esigua striscia nel mezzo”.
L’unica certezza è la “redistribuzione” operata dal saccheggio generalizzato. I tedeschi arrivano sulle moto, neri di fuliggine, lanciando messaggi amichevoli. Ma forse ha capito tutto “una ragazza ebrea che correva per la strada, ha ucciso due ufficiali e poi si è sparata”. Il 24 settembre, la strana sospensione in cui Kiev si trova è interrotta dalla prima di una serie di detonazioni. In poche ore tutto il centro, con i suoi negozi e teatri, sprofonda per le mine che i partigiani avevano piazzato affinché i tedeschi non credessero di stare al sicuro “come nelle capitali occidentali” da loro conquistate. Queste macerie sono i propilei fumanti attraverso cui si passa per entrare nell’azione vera e propria. Sullo sfondo, “Babij Jar”: così era detta una voragine nei pressi di Kiev destinata a diventare fossa comune, colossale urna cineraria per decine di migliaia di ebrei ucraini e altre vittime degli occupanti.
BABIJ JAR
Anatolij Kuznecov
Adelphi, 454 pp., 22 euro