Lo stradone
Francesco Pecoraro
Ponte alle Grazie, 434 pp., 18 euro
Che Francesco Pecoraro fosse mente arguta e finissima penna lo si sapeva già da La vita in tempo di pace, suo precedente romanzo del 2013, che lo portò nella cinquina finale allo Strega e che fu incensato da tutta la critica letteraria. Dopo sei anni di silenzio torna sulla scena e sceglie di farlo con un oggetto ibrido a metà tra il saggio e il romanzo: Lo Stradone.
Un uomo di circa settant’anni riflette sulla sua vita e sui cambiamenti della società osservando dalle finestre “della grande palazza” dove vive cosa accade nello Stradone, una sorta di non-luogo, situato tra il centro e la periferia della “Città di Dio”. Roma. Considerazioni magmatiche di fenomenologia urbana si mischiano ad aneddoti di vita vissuta, analisi sociologiche, racconti storici e valutazioni urbanistiche. “Abito sullo Stradone, dove la città fa una pausa. Ci abito da più di vent’anni, vent’anni di sofferenza percettiva, e sono convinto che ci morirò”. Questo dice l’io narrante, l’uomo al quale Pecoraro non è riuscito nemmeno a dare un nome e che sarà l’unica voce che sentiremo. Ascolteremo quindi per tutta la durata del libro il punto di vista di un uomo disilluso, violentemente cinico, profondamente frustrato, a cui la vita non ha regalato soddisfazioni né gioie. “Tra i miei vari fallimenti, ho fallito anche nella carriera impiegatizia, oltre che nei rapporti affettivi, nel riprodurmi, nel convivere, nel matrimonio, nel tradire, nell’essere onesto, in tutto. Adesso sono in pensione. Faccio un cazzo”. Ed è proprio in questo stato di attesa che si svolgono le sue giornate trascorse per lo più in un bar, il Porcacci, specchio della decadenza del nostro tempo, che diventa osservatorio privilegiato per studiare il territorio circostante e prendere atto della perenne condizione di “ristagno” all’interno della quale chiunque di noi giace. Scritto in maniera densa, sofferta, a tratti profondamente lirica, Lo Stradone risulta così essere un disarmante trattato antropologico sull’essere umano infarcito di analisi filosofiche sull’inutilità della vita e sulle illusioni di un’intera generazione. “Ma allora Clooney non è ‘froscio’?”. “Sì, lei è ’na copertura”, si chiedono due avventori del Porcacci mentre il nostro io narrante si domanda, davanti a una tazza di caffè rancido, il perché ancora qualcuno non sia venuto a sgozzarlo: in quanto essere inutile, il cui unico obiettivo rimasto nella vita è quello di percepire la pensione. Sembra così che Pecoraro quasi si diverta a mixare formule urbanistiche e riflessioni esistenziali con il linguaggio pseudodialettale della plebe. Il risultato è quello di un libro complesso, strabordante, di non facile “digestione” ma comunque potente. Preziose le pagine su Lenin e quelle sulla storia del quartiere, che nella realtà è identificabile con Valle Aurelia. Da leggere con particolare attenzione le parti dedicate alla ciminiera, al “Monte d’Argilla”, che per secoli ha rifornito di mattoni, e in definitiva costruito, la “Città di Dio”.
LO STRADONE
Francesco Pecoraro
Ponte alle Grazie, 434 pp., 18 euro
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