Domingo il favoloso
Giovanni Arpino
minimum fax, 228 pp., 15 euro
E poi, come d’incanto, arriva. Un lampo nella vita, capace di scombinare tutto, di ribaltare consuetudini e vizi. Ma soprattutto di rompere la crosta dell’anima, ferma al diabolico “già visto” che tiene in scacco l’esistenza. Anche quella di un apparentemente irrefrenabile Domingo, maestro della truffa, abilissimo giocatore di poker, integerrimo puttaniere, incapace di ancorarsi a qualunque ceppo che sappia di staticità borghese, eppure distrutto dalla stanchezza di una coazione a ripetere, e a ripetersi, che non evolve.
E’ a lui che Giovanni Arpino – giornalista e scrittore prolifico troppo a lungo dimenticato, già cronista sportivo alla Stampa e al Giornale montanelliano – dedica un romanzo misterioso, ora finalmente ripubblicato per i tipi di minimum fax, quantomeno “strano” rispetto ai canoni cui la letteratura italiana era ed è abituata. Atto intermedio della trilogia di genere fantastico – che comprendeva anche Randagio è l’eroe (1972) e Il primo quarto di luna (1976), incastonatosi in una carriera di successi come quello di Sei stato felice, Giovanni, il primo vero acuto del 1952 che aveva colpito subito anche Elio Vittorini e l’Einaudi – Domingo il favoloso è difficilmente richiudibile in recinti. Surreale, poetico, cabalistico, innovativo: tutto questo, ma anche niente di tutto questo. Un’avventura, raccontata con il linguaggio originale e sontuoso degli artisti, fatta d’incantesimi e segni premonitori e angeli custodi, quando il mondo già allora spingeva sulla sola materia e faceva del resto una questione da creduloni o beghine.
Ed è un lampo incomprensibile ai più, e alla sua cerchia di amici, quello che colpisce il protagonista. Occorre almeno lasciarsi sorprendere. Da sempre legato ad Angelica, fidanzata un po’ rude, proprietaria di un banco di torroni nei pressi di un luna park, che vorrebbe solo una vita “normale”, e ad altre simpatiche canaglie come Cesco e Paolino, un bel giorno Domingo “ebbe la soddisfazione d’un brivido. E di una spina che lacerò l’involucro ammuffito del suo cuore”.
L’incontro con una giovane zingara, nata con il cuore spostato da una parte, dal viso azzurrino per le febbri perenni, e con il suo mondo gitano, lo travolge, stregandolo. La rapisce per giocare il suo ultimo colpo e, in una storia nella quale non accade nulla di scabroso o di sensuale, Arianna gli ri-dona un destino, cioè un cuore capace di conoscere e di cambiare. E, quando lei se ne va per sempre, l’unica sensualità che rimane è quella di riscoprire il sapore della sua assenza. Perché la vita non si possiede, si penetra.
“La vita o è stile o è errore”, allora, scriveva Arpino in uno dei suoi ultimi romanzi, poco prima di morire nel 1987. Quella di Domingo, errabonda in una Torino sotterranea, popolata di una classe media annoiata in cerca del risolutivo lancio di dadi, rischia di essere solo errore e fatica a diventare stile. Ma quando finalmente vi riesce “la vita può sorridere” e “comandare al vento”. E anche Angela, pensando al suo Domingo, può concludere: “Oggi so stare all’ombra del grande albero che sei”. Dimora.
Giovanni Arpino
minimum fax, 228 pp., 15 euro
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