Siamo ridicolo tempo che mendica eternità e grazia
Come si è annacquata esperienza estetica nell’era dei social e perché si è ridotta a mera “arte del like” che “vuol soltanto piacere, non scuotere”
"Imparo a vedere. Tutto mi penetra più profondamente e non si posa più dove finiva prima. Ho in me un’interiorità che non sapevo e in cui si cala ormai ogni cosa. Non so che vi avvenga". Sono parole del Rilke dei Quaderni di Malte Laurids Brigge, laddove il poeta sosteneva che occorrono ore per nettare gli occhi da veli e incrostazioni, e poter contemplare davvero un dipinto o una statua. Forse, con qualunque Botticelli o Bacon a portata di cellulare, chi volesse ammirare gli originari dovrebbe pagare per essere sottoposto a qualche rito d’iniziazione: una lotta gladiatoria, un giorno di digiuno, o un’ora nell’oscurità totale, e solo allora ci sarebbe potuto concedere l’ingresso, come in udienza presso un re.
Ci ho pensato a dicembre, a Parigi, nella sala della Gioconda, dove ondate di turisti si precipitano col cellulare già alto per scattarsi un selfie, senza nemmeno guardare il dipinto, o notare gli altri. Mi ci ero recato munito di quaderno per i bozzetti, io che non so quasi disegnare, proprio perché le mie copie imbarazzanti mi aiutano a notare ancora di più la distanza infinita che ci separa dal miracolo d’un gesto in Tiziano o Raffaello.
E’ un tema decisivo del nostro tempo, che ha visto inverarsi la profezia di George Steiner sulla comunicazione come quarta dimensione, una trasformazione che coinvolge naturalmente quella comunicazione del tutto specifica che è l’arte in tutte le sue forme.
E’ anche il tema del saggio di Byung-Chun Han, “La salvezza del bello” (Nottetempo) che punta il dito sull’annacquamento dell’esperienza estetica nell’era dei social, ridotta a mera “arte del like” che “vuol soltanto piacere, non scuotere”. Gattini, quadri, citazioni poetiche su tramonti fiammeggianti sono in fondo interscambiabili, mero flusso d’informazioni gradevoli, svuotati d’ogni mistero, d’ogni complessità, una cascata che conosce “la massima velocità dove l’uguale reagisce all’uguale”. Ciò comporta anzitutto l’atrofizzazione della comunicazione stessa, giacché “i dati non possiedono alcuna interiorità, alcun rovescio, alcun doppiofondo, e per questo si differenziano dal linguaggio, che non ammette una definitezza totale” e “la comunicazione in quanto scambio d’informazione, non racconta nulla, conta soltanto”, ma anche della bellezza e del desiderio erotico stesso, dal momento che “la costante presenza del visibile, di natura pornografica, annienta l’immaginario e paradossalmente non offre nulla che si possa vedere”.
Già Seneca metteva in guardia da chi sfoglia mille libri e non ne finisce nessuno, e tante nostre relazioni interpersonali hanno la stessa labilità, e sottintendono le stessa pavida superficialità, del rapporto con quadri o statue: “Evitiamo di impegnarci seriamente perché ciò potrebbe metterci nella condizione di essere feriti. Le energie libidiche sono disperse, come accade negli investimenti finanziari, in diversi oggetti, al fine di evitare una perdita totale”. Per questo, sostiene Han, “la salvezza del bello è la salvezza dell’altro”, e difendere una riscoperta anticonsumistica dell’esperienza artistica, riprendendosi tempo, silenzio, permettendo alle opere di suscitare in noi domane e turbamenti, costituisce anche una fondamentale scuola affettiva. Come ammoniva Jean Guitton, un errore è una verità elevata a sistema, e ci sono molti elementi nelle arti performative contemporanee che sanno riconsegnarci anche i classici sotto luce nuova, in dimensioni inesplorate, tuttavia c’è un elemento salutare nel ribadire che facilmente “Il tatto secolarizza ciò che tocca”.
Il Noli me tangere del Cristo risorto pare quasi assurgere a incarnazione d’un suggerimento di reverenza universale. Roberto Calasso ne “L’Innominabile Attuale” mostrava come turismo di massa e terrorismo internazionale risultino due sfaccettare d’un medesimo universo concettuale, e in effetti libri, paesaggi, quadri si riducono spesso a mere prede da brandire e sfoggiare. Adreinne Rich ha sostenuto che la possibilità di ri-vedere qualcosa, di soffermarsi su un’immagine enigmatica o un passaggio complesso non sono affatto un lusso secondario, ma un autentico atto di sopravvivenza, da cui dipenderà tanto della nostra vita personale e collettiva. Kalà te kalepà, il bello è difficile, affermava già Platone, se assecondato davvero, ti porta laddove non vorresti andare, a fare l’esperienza del limite, della morte. Quando Anchise scoprì di essere giaciuto con Afrodite, la supplicò di ucciderlo all’istante. E’ il singulto segreto presente in ogni esperienza pura, il pianto perché tutti “ambiamo a uno stato dell’essere, e invece incappiamo in una mera sequenza” come notò C. S. Lewis. Nessuno forse l’ha espresso come il Visconti di “Morte a Venezia”, quando la maschera che imbelletta il viso del vecchio Aschenbach si disfa ed egli muore tendendo le braccia verso la grazia perfetta di Tadzio in mare, che indica l’orizzonte. Noi siamo ridicolo tempo che mendica eternità e grazia. Lo siamo sempre e comunque, in qualunque balbettio, ma è bene ricordarselo.
Il Foglio sportivo - in corpore sano