Il tango
di Jorge Luis Borges, Adelphi, 170 pp., 14 euro
Le registrazioni di quattro conferenze sul tango, tenute nel lontano 1965 e dissepolte quasi per caso di recente, ci offrono un inedito Jorge Luis Borges (1899-1986) “uno dei grandi maestri della letteratura di tutti i tempi”, come è scritto nella prefazione dell’edizione originale.
Due parole, universalmente note, sono sinonimo di Argentina in tutto il mondo: gaucho, e tango. Il tango nasce intorno al 1880 a Buenos Aires, inizialmente suonato con pianoforte, flauto e violino: strumenti non proprio alla portata di tutti, come invece era la chitarra. Il tango dunque non nasce in ambienti poveri e popolari, bensì nelle case di malaffare – come il jazz, del resto, pochi decenni più tardi negli Stati Uniti.
“Il popolo, all’inizio, rifiuta il tango – spiega Borges – perché ne conosce l’origine indecente. (…) Spesso coppie di uomini ballavano il tango perché le donne del popolo ne conoscevano la radice e non volevano ballarlo. Al contrario di quella specie di romanzo sentimentale creato dal cinema, non è il popolo che inventa il tango, non è il popolo che lo impone alla gente perbene. Accade esattamente il contrario”.
Protagonisti di versi, musica e ballo sono sempre gli stessi personaggi: il compadrito (cioè il ruffiano) la donna di vita e il nino bien patotero (il giovane arrogante di buona famiglia). Borges non condivide affatto la nota definizione attribuita a Ernesto Sabato, secondo cui il tango è “un pensiero triste che si balla”; la tristezza semmai arriva dopo. Il tango piuttosto è un “rettile da lupanare”, come sostiene Lugones. Nasce dalla milonga, appartiene alla “setta del coltello e del coraggio”, il suo protagonista assoluto è il guappo, con un proprio codice d’onore. “Alla componente erotica, o da postribolo, nel tango si aggiunge una componente bellicosa, di lotta felice, di simulazione di scontro al coltello. (…) Fatti di pura sfacciataggine, di pura spudoratezza, di pura felicità del coraggio”.
Nel 1910, primo centenario della Repubblica argentina, “arriva la notizia che ci commosse tutti: a Parigi si ballava il tango, e poi a Londra, Vienna, Berlino, perfino San Pietroburgo. (…) Ma quel tango non era lo stesso della case di malaffare. (…) E’ strano che proprio a Parigi, città simbolo di libertà dei costumi, il tango sia diventato più presentabile, che abbia perso le pose originali e si sia trasformato in una specie di camminata voluttuosa. (…) Il tango all’inizio è un ballo audace, felice; poi va illanguidendosi e intristendosi”.
Le prime cronache europee lo descrivono come “lento e malinconico”, invece in un verso Guiraldes lo definisce “fatale, superbo e rozzo”.
In uno dei più celebri racconti borgesiani (Uomo all’angolo della casa rosa) il protagonista confessa: “Il tango faceva di noi quello che voleva”. Al termine delle quattro conferenze, Borges conclude: “Dunque, nella mia poesia mi domando ancora: dov’è quel coraggio, quella felicità, il mettere alla prova il proprio valore, la sfida verso degli sconosciuti, dov’è tutto questo, così diverso dal nostro tempo? E dico che quei morti vivono nel tango”.
Jorge Luis Borges
Adelphi, 170 pp., 14 euro
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