Perifrasi del concetto di fame
di Leo Spitzer, il Saggiatore, 624 pp. 42 euro
In quanti modi si può dire “fame”? In quanti modi si può dire “fame” quando “fame” è una parola proibita, una parola che la censura militare copre con una spessa striscia nera, ma far sapere a casa che non si ha da mangiare può essere questione di vita o di morte? Si può far riferimento a proverbi conosciuti dai destinatari, tipo il lombardo “ona cá de fam, füm e frec”, una casa di fame, di fumo e di freddo, per dire una situazione di miseria; ed ecco allora nelle lettere i riferimenti alla “cantina dei tre effe”, e all’“albergo delle Tre Effe”. Si possono usare ingenui anagrammi, come “La signora Emaf non cessa di circondarmi del suo affetto e pure tu sai bene che non provo per essa la minima simpatia”, oppure ingegnosi ma sempre riconoscibili espedienti enigmistici, come “qui non si sta tanto male ma sinix somberffrenter aix ssai xinix laixfaixmenter”, dove per l’avvertito censore individuare il messaggio nascosto è gioco da ragazzi. C’è chi cerca di mimetizzare la parola proibita nei nomi propri – “l’amico Sepatislafam” e infinite varianti –, fra i saluti, nell’indirizzo. Ci sono poi i nomi in codice – dalla “caccia” alla “spazzola”, e mille e mille giri di parole; ma l’argomento intorno a cui ruota tutta la corrispondenza è quello: far sapere a casa che si muore di fame, e implorare l’invio di un po’ di cibo.
A scrivere sono i soldati italiani caduti prigionieri degli austriaci durante la Grande guerra. Sono ridotti alla fame più nera, perché l’Impero già fatica a sfamare i propri soldati, figurarsi le centinaia di migliaia di prigionieri presi dopo Caporetto; tanto che ha avvisato che non sarà in grado di garantire il rispetto delle convenzioni internazionali in merito al trattamento dei prigionieri. Ma, mentre Francia e Gran Bretagna per sostenere i propri soldati catturati hanno avviato un flusso regolare di rifornimenti, l’Italia ha negato ogni aiuto: le alte sfere dell’esercito bollavano infatti i prigionieri come disertori, e il governo stimava che le notizie delle penose condizioni in cui si viveva e si moriva nei campi austro‑tedeschi avrebbero scoraggiato diserzioni ulteriori.
A raccogliere, ordinare, commentare le testimonianze è Leo Spitzer. Destinato nel 1915 all’Ufficio centrale della censura postale dell’imperialregio esercito, il grande linguista vede nell’incarico una straordinaria occasione per un’indagine altrimenti impossibile; e per tutta la durata della guerra ricopia migliaia di lettere. Il risultato è pubblicato oggi per la prima volta in Italia, a completare – dopo “Lingua italiana del dialogo” e “Lettere di prigionieri di guerra italiani” – il trittico dei lavori dedicati da Spitzer alla nostra lingua.
Che si presenta – l’espressione è di Spitzer – come una “terribile sinfonia della fame”, di cui “più che la singola autorità di una singola potenza belligerante dovrebbe essere rimproverata l’umanità intera, che ha permesso una guerra mondiale e per anni ha fatto patire la fame a migliaia di persone lontane dai propri cari”.
Leo Spitzer
Perifrasi del concetto di fame
il Saggiatore, 624 pp. 42 euro
Una fogliata di libri