Il destino di Roma
La recensione del libro di Kyle Harper, Einaudi, 512 pp., 34 euro
Sul crollo dell’Impero romano e sulle sue ragioni si sono scritte intere biblioteche. Chi lo attribuisce alle invasioni barbariche, chi alle lotte intestine, chi alle contraddizioni di un sistema la cui difesa aveva un costo ormai insostenibile. “Posto che tutte queste risposte possono essere contemporaneamente vere – annota Kyle Harper, docente di Lettere classiche all’Università dell’Oklahoma –, lo scopo della nostra trattazione è capire [che] il destino di Roma fu portato a compimento da imperatori e barbari, senatori e generali, soldati e schiavi, ma venne parimenti deciso da batteri e virus, eruzioni vulcaniche e cicli solari”. Una serie di mutamenti di lungo periodo di cui i Romani stessi non potevano rendersi conto, se non nella forma delle cronache di stagioni particolarmente inclementi o violente epidemie; e che gli studiosi moderni hanno potuto comprendere solo in tempi recenti, grazie a tecniche avanzate come l’analisi dei radionuclidi cosmogenici rimasti intrappolati nei ghiacciai o lo studio del Dna conservato in ossa sepolte decine di secoli orsono.
La storia climatica e biologica che ne emerge, ancorché incerta in molti dettagli, nelle linee generali è chiara. Il grande sviluppo dell’Impero coincise con l’“Optimum climatico romano”, un periodo di tempo stabile, caldo e umido, che dominò nel Mediterraneo all’incirca dal 200 a. C. al 150 d. C. Ma proprio la prosperità prepara la nemesi: la densità abitativa delle città è infatti il terreno più fertile per la diffusione delle malattie, e fra il 160 e il 180 sull’Impero si abbatte la cosiddetta “peste antonina”, un’epidemia – probabilmente di vaiolo – che fece almeno dieci milioni di vittime. Intorno alla metà del III secolo, eventi atmosferici e patologici sommano le loro conseguenze nefaste: mentre il clima si fa più secco – per diversi anni le millenarie piene del Nilo non si fecero vedere –, tra il 250 e il 260 divampa la “peste di Cipriano”, che deve il suo nome al santo vescovo di Cartagine che ce ne ha lasciato la descrizione più drammatica. Tre secoli più tardi, intorno al 540, è la prima apparizione di yersinia pestis, il terribile bacillo della peste bubbonica, a mettere in ginocchio quel che resta dell’Impero romano, il dominio di Bisanzio. Appena prima, nel 536, le cronache hanno registrato l’“anno senza estate”: il sole appare sempre velato, i raccolti stentati. E’ l’inizio della “Piccola glaciazione” della tarda antichità, innescata da una serie di eruzioni vulcaniche le cui ceneri velano l’atmosfera e sostenuta da una secolare diminuzione dell’attività solare: l’idea dei primi medievali che la fine del mondo fosse vicina aveva solide motivazioni meteorologiche…
Con tutto questo, la lettura della storia di Kyle è tutt’altro che deterministica; al contrario, suo obiettivo è scrivere “con un sano rispetto per il regno della libertà e dell’imprevedibile e una forte dose di empatia per gli esseri umani che condussero la loro vita nelle condizioni in cui vennero a trovarsi”.
di Kyle Harper
Einaudi, 512 pp., 34 euro
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