Il doppio volto del diritto

Giuseppe Perconte Licatese

La recensione del libro di Francesco Mancuso, Giappichelli, 376 pp., 32 euro

L’autore dei saggi qui raccolti sa che il diritto non può risolvere il male dell’uomo ma “costruire un riparo” contro la violenza. Tra le fonti di questa coscienza c’è un inatteso Leopardi “progressivo” e il suo elogio della civiltà moderna, che ha almeno mitigato la violenza connaturata nella società degli uomini. Il diritto, inoltre, che “non può essere altro che diritto positivo”, cioè creato dagli uomini, è detto, con bella immagine, “il diritto di Antigone che deve farsi legge di Creonte”, sempre rimanendo in tensione con un’idea di giustizia che lo supera. I capitoli del libro sono diversi nell’intenzione e nel soggetto (dal confronto coi due pesi massimi novecenteschi Schmitt e Kelsen, a quello con i classici pre illuministi Vattel e Wolff, ai problemi del diritto sul fronte dell’inizio e del fine-vita) ma un filo conduttore può essere indicato in questo: Francesco Mancuso offre un percorso sul pensiero giuridico italiano dell’ultimo secolo, che è anche uno stato dell’arte. A partire da Norberto Bobbio, dal suo fondamentale giudizio sullo stato come male necessario che lo porta sulla via liberale della limitazione del potere, si dipana una generazione che si è lasciata alle spalle il mito dell’unità dell’ordinamento e della sua intrinseca giustezza: il diritto è, nella lezione di Alfonso Catania, un diritto “senza verità”, campo di lotta tra poteri che affermano provvisoriamente la propria volontà, per essere poi rovesciati. Anche Giuseppe Rensi era messo in scacco dalla constatazione che la giustizia si afferma in modo sempre parziale, in quanto sempre “trionfa attraverso la forza”. Ma lo stato è necessario: mettono l’accento su questo predicato, in modi diversi, Guido Rossi, critico del “mito della mano invisibile” e convinto che lo stato deve ritrovare la capacità di impartire regole al “mercato d’azzardo”; e Geminello Preterossi, secondo il quale la sovranità è elemento irrinunciabile perché vi sia democrazia, e un concetto da non lasciare nelle mani dei populismi di destra.

  

E’ inoltre recuperata la figura di Umberto Campagnolo, nel 1945 uno dei teorici di una repubblica federale europea da costituirsi attraverso l’integrazione dei popoli e delle società, non degli stati, ovvero mediante una solidarietà orizzontale tra gli europei. Si tratta di autori non ascrivibili a una stessa scuola, sebbene le aporie che tutti loro evidenziano puntano nella direzione di una terza via liberale-sociale, indicata a suo tempo da Guido de Ruggiero – la figura cui Mancuso sembra con più decisione volersi affidare. Ruggiero, un liberale che fu sempre sensibile all’idea che “la diseguaglianza delle condizioni” è un germe di “violenza permanente”, prima ancora che il ruolo del diritto richiamava la reciproca assunzione di responsabilità tra i consociati (“non ci si fa persona se non tra le persone”) e la lezione di Tocqueville: “La libertà del singolo può conservarsi e svilupparsi solo se fuoriesce da se stessa attraverso la partecipazione alla libertà politica della comunità”.

  

IL DOPPIO VOLTO DEL DIRITTO
Francesco Mancuso
Giappichelli, 376 pp., 32 euro

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