Scintille
La recensione del libro di Federico Pace, Einaudi, 200 pp., 14 euro
In esergo a Scintille, ci sono questi versi di Anna Achmatova: “Perdona se vissi in pena, e se poco ho gioito del sole. Perdona quei troppi scambiati per te”. E quest’altro di Julio Cortázar: “Camminavamo senza cercarci pur sapendo che camminavamo per incontrarci”.
Tutti aspettiamo qualcuno. Qualcuno che c’è già stato e del quale desideriamo il ritorno, che non c’è mai stato e del quale sogniamo l’arrivo, che c’è e che cerchiamo di mantenere al nostro fianco. E sempre per una ragione, che è il punto dei racconti che Federico Pace ha raccolto nel suo libro: prima o poi ci imbattiamo “nell’istante vertiginoso in cui una persona irrompe nella nostra quotidianità e ne muta l’assetto”. L’incontro, che nella nostra vita è l’imprevisto inevitabile, il pericolo necessario, ci determina, ci dice chi siamo, cosa possiamo diventare, a cosa possiamo ambire, in che modo ci possiamo trasformare e, nel farlo, scoprire un inedito e trovarlo familiare, nostro, coessenziale. Tutte cose che ci attraggono e, nello stesso tempo, spaventano, perché ci spostano e, a volte, ci ribaltano, devastano, frantumano.
L’animo umano ha bisogno tanto di camminare su una strada che conosce, in una buona abitudine, quanto di ritrovarsi spiazzato, sorpreso e di fare entrambe le cose (entrambi i viaggi?) accanto a qualcuno. Arriviamo ad accettare di condividere quei due sentieri, a volte uscendo da noi stessi, altre tentando di replicare noi stessi, a volte aggrappandoci all’altro, altre volte sorpassandolo, ma sempre non da soli.
E non c’è spirito del tempo che tenga, per quanto sia giusto (e triste) quello che Massimo Recalcati ha detto di recente a Linkiesta: il moderno è stato il passaggio dal Dio all’io e l’ipermoderno, il nostro contemporaneo, è l’io che diventa Dio. Gli incontri e le relazioni conseguenti che Pace racconta sono avvenuti tutti in anni parecchio diversi e lontani dai nostri, eppure tutti abbiamo avuto, come Truffaut, il nostro Antoine Doinel, cioè qualcuno nel quale ci siamo specchiati dopo non esserci riconosciuti; come Rodin, la nostra Camille, cioè qualcuno con cui abbiamo fatto scintille e poi incendi e che quando è andato via ci è mancato al punto da farci sentire estranei a noi stessi, irrimediabilmente monchi, spenti per sempre. Gli incontri della vita sono quelli con le persone che ce la cambiano, e iniziano tutti con un piccolo fuoco, alla cui manutenzione siamo tenuti e alla cui agonia siamo destinati.
Nel racconto su Albert Camus e sua madre Pace ricorda che, quando lei si ammalò, lui scrisse su un taccuino che se si amasse qualcuno fino in fondo e completamente, si riuscirebbe a impedirgli di morire. Era disperato e non aveva ragione, né torto: fantasticava su un modo migliore, su un passo ulteriore, una sfida assoluta. Questo vogliamo, dall’incontro della vita (è uno? Forse no, e di certo ce n’è uno per ogni momento, per ogni scelta): vogliamo che ci accenda al punto da farci immaginare l’impossibile, e combattere per ottenerlo, indipendentemente dal risultato. Il tentativo è l’obiettivo, e per questa ragione camminiamo senza cercarci pur sapendo che camminiamo per incontrarci.
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