L'unico modo di rendere l'agitazione della vita. In memoria di Mario Soldati
Vent'anni fa moriva uno degli autori più eclettici della storia italiana. Fu molte cose, perché si interessò a molte cose. Un ricordo, tra film, libri e vini
Un uomo distinto, fine seduttore, avanza con passo austero tenendo il sigaro in bocca. Dritto, integro, veste sempre di marrone, con abiti che sembrano tutti uguali, proprio come i dandy. Sembra un attore, e forse lo è stato davvero, anche quando scriveva. I personaggi paiono “recitati” da lui stesso ancor prima di vederli impressi su carta. Non stupisce, tutto questo, se pensiamo che Mario Soldati fu uno dei registi italiani più noti del Novecento.
Sono passati vent’anni dalla sua morte – era il 19 giugno 1999 – e novanta dalla pubblicazione della raccolta di racconti “Salmace”, un esordio per il quale Giuseppe Antonio Borgese spese parole importanti sul Corriere della Sera, paragonando un poco più che ventenne Soldati a Gide.
Quando nel 1954 vinse il Premio Strega con “Le lettere da Capri” (oggi in libreria nella nuova edizione Bompiani) era conosciuto più come regista che come scrittore (aveva già portato sul grande schermo “Piccolo mondo antico”, “Malombra”, “Eugenia Grandet”), e proprio con questo romanzo diede vita sia al Soldati personaggio che al Soldati romanziere, apparendo per la prima volta nella veste di narratore-confessore. Girò molti film, scrisse sceneggiature, romanzi e racconti, fu enologo o, più precisamente, “amatore inesperto” del vino (al quale dedicò il volume “Vino al vino”, anzitutto un viaggio nell’Italia dei primi anni Settanta): insomma, Soldati fu molte cose, perché si interessò a molte cose. Fin da ragazzo, quando partì per l’America e ne tornò perdutamente innamorato, sviluppò una curiosità intellettuale – libera e antiaccademica – con la quale arricchì la sua natura già di per sé inquieta e dirompente.
Tutto questo, però, non sempre gli giocò a favore: il suo impegno su più fronti – dal cinema alla letteratura passando per l’enologia – lo rendeva sì eclettico ma, agli occhi di certa critica, una sorta di eterno “dilettante” che, per di più, otteneva con facilità anche un ottimo successo di pubblico. E questo, si sa, a taluni critici letterari è sempre piaciuto poco, come se il consenso popolare non potesse procedere di pari passo con la qualità letteraria.
Ma Soldati, nonostante tutto, l’affetto del pubblico se lo guadagnò per molti motivi, tutti incontrovertibili. A partire dalla scrittura, dalla naturalezza di quella pagina – così straordinariamente armoniosa, compatta nella sua semplicità – a cui lo scrittore lavorava in modo minuzioso. La pagina di Soldati appare al lettore tanto fluida quanto artificiosa si rivelava nella realtà, vittima com’era di un alacre labor limae, da parte dello scrittore, che, alla fine, riusciva a rendere la sua penna accessibile a tutti, mai turbolenta e priva di sobbalzi sperimentali. Insomma, una delle scritture più belle e limpide della nostra letteratura, come ebbe a dire Cesare Garboli, al quale non sfuggì la complessità – questa sì, davvero – della materia dei suoi romanzi.
Una materia torbida, talvolta autobiografica, domata in modo impeccabile. Tra i temi più ricorrenti c’è senza dubbio quello della confessione (dispiegata a più livelli), che ha da sempre occupato un ruolo centrale nella narrativa di Soldati. Ne “Le lettere da Capri”, ad esempio, c’è la confessione del tradimento di Jane a Harry, ma si tratta di una confessione laica, poiché manca il momento essenziale del cattolicesimo, ossia la riconciliazione con Dio. Così come viene ribaltata l’idea del matrimonio, che in una visione più sottile e vagamente perversa, viene concepito come un vizio, una possibile forma di masochismo, un supplizio individuale, squisito e assolutamente consapevole, finanche ragionato, che prevede l’unione tra l’uomo e la donna come contratto innaturale, sbagliato per indole, e per questo godurioso. Harry, in sostanza, sposa Jane proprio perché non vuole sposarla. La sposa sapendo di non volerla. La sposa pur pensando che sia Dora la donna che lui rincorrerà per tutta la durata della sua unione. Dunque, proprio il matrimonio, non è che un luogo di perversione e di fantastici abissi erotici e “Le lettere da Capri” un grande romanzo sull’inferno coniugale.
Ecco quindi che il sottosuolo tematico di Soldati si risveglia a ogni pagina – piana, cristallina, accompagnata da una scrittura soave, per noi deliziosa – conscio della sua complessità: un parossismo psicologico – evidente, lapalissiano – che, pur tuttavia, mai si riverbera in un parossismo linguistico. L’unico modo di rendere l’agitazione della vita è di analizzarla con chiarezza. Questa, la legge di Mario Soldati.
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