L'asino del Messia
Wlodek Goldkorn
Feltrinelli, 224 pp., 16 euro
“Parlava babbo, sempre nel suo ebraico sinagogale, tornatogli alla memoria a quell’ora che non era più né notte né ancora mattino; in quell’attimo in cui non eravamo più polacchi ma neanche ancora israeliani”. Nel 1968, in Polonia, il regime comunista decide che non vuole più ebrei dentro i propri confini; alla fine di settembre, la famiglia Goldkorn parte in treno da Varsavia per prendere un aereo a Vienna e infine, insieme a “una massa di derelitti benvestiti”, atterra a Tel Aviv. Wlodek ha sedici anni e ai controlli si presenta come Wlodzimierz, ovvero Vladimir, un nome ricevuto in ricordo di Lenin, ma dentro sé sa di chiamarsi Asher, il nome del nonno, che in ebraico significa “felice”. Per quel ragazzo eccitato e intimidito, Israele è sogno e mitologia, idealizzazione e meta, casa e ascesa; indossa un paio di pantaloni neri e un dolcevita, all’improvviso i suoi vestiti sono la cosa più sbagliata di tutte, a carezzarlo non c’è il vento sferzante dell’est ma l’aria calda che soffia sugli aranceti, e poi si sente troppo elegante, perché è così inadeguatamente elegante? “I profughi una volta portavano con sé gli abiti migliori. Oggi, sbarcati dopo giornate di sofferenza nel Mediterraneo, arrivano su gommoni, seminudi e avvolti nelle luccicanti coperte termiche fornite dai soccorritori”.
L’asino del Messia di Wlodek Goldkorn (Feltrinelli) è la narrazione letteraria di una memoria mobile, dentro cui anche l’oblio ha diritto di residenza. A tratti, la scrittura assume le sembianze di un’intervista impossibile ai fantasmi (“la misura delle cose”), e l’identità non ha a che fare con la ricostruzione ma con una perlustrazione non lineare – letteraria, sociale, linguistica (“per me essere di casa significa conoscere la lingua e, siccome in diverse lingue sono di casa, ho diverse identità”). I protagonisti delle storie che abitano questo libro sono spesso scrittori, intellettuali, artisti: per Goldkorn l’autobiografia va cercata in una complessità semantica come quella fornita dall’alfabeto ebraico, che può farsi mappa o costellazione. Vi verrà voglia di leggere o rileggere Michael mio di Amos Oz oppure l’autore che più di tutti mi affratella a Goldkorn, Bruno Schulz, mentre scoprirete un personaggio come Yoram Kaniuk, “uno scrittore bravo e triste”, e la sua versione dei fatti del ’48, e guarderete con occhi diversi un intellettuale di cui credevate di sapere tutto come Zygmunt Bauman. Tutto questo accadrà mentre percorrerete strade assolate a fianco di un ragazzo che si rifiuta di puntare un fucile contro un bambino, che milita a sinistra, che la sera va a ballare in un locale chiamato Saint-Tropez, perché esistono non una ma tante terre promesse, di cui una è in Costa Azzurra e ha assunto le sembianze di Brigitte Bardot. Insieme al precedente Il bambino nella neve, questo libro va a formare un dittico importante, luminoso, che ha il suo centro nell’esposizione di sé che si fa esplorazione del mondo, dalle città al kibbutz, dai villaggi arabi del Mediterraneo a Buenos Aires, dalla tradizione alla filosofia alla politica, per scoprire, solo nell’ultima riga, qual è il posto giusto da chiamare casa.
L’asino del Messia
Wlodek Goldkorn
Feltrinelli, 224 pp., 16 euro
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