Alla ricerca del misterioso alfabeto della creazione
Abbiamo bisogno di scendere sotto la soglia della confusione quotidiana, della fretta reattiva, per non farci assordare da questo “mondo che cinguetta”
“Il Caso o la Danza?” se lo domandava Eugene Warren, in una poesia che diede anche il titolo a un celebre saggio di Thomas Howard: “E’ il mondo cieco e sordo, o in boccio, in festa? Uno scherzo vuoto o una sacra festa?”. E’ un quesito che si pone anche Francesca Matteoni, poetessa, narratrice orgogliosamente “appenninica” e colonna di “Narrazione Indiana”, nel suo bel saggio poetico sui Tarocchi “Dal Matto al Mondo” (Effequ), e che potrebbe essere tradotto pure così: la magia esiste, davvero? Esiste un linguaggio segreto dell’universo, che possiamo intercettare? Un alfabeto che è anche una musica, avvertibile “al fondo di ogni esperienza pura” come scriveva C. S. Lewis richiamandosi a Dante, Shakespeare e Donne?
Fu proprio durante l’Umanesimo che il gioco di carte, in uso nelle corti, assunse una valenza magica. Sono gli stessi decenni nei quali i dotti cercavano al contempo di ricostruire e fondare per la prima volta una “Philosophia Perennis”, una sapienza ancestrale che percorrerebbe la storia collettiva dell’umanità e troverebbe il suo compimento in un cristianesimo di cui Platone ed Ermete Trismegisto sarebbero profeti al pari di Isaia e Mosè. E’ uno dei sogni che componeva quella che De Lubac chiamava “l’alba incompiuta del Rinascimento”, l’ambizione di Ficino, Erasmo e soprattutto Pico della Mirandola, per il quale anche la Cabala ebraica e la mistica musulmana avrebbero costituito un apporto decisivo. Un’aspirazione che voleva essere tutt’altro che erudita, in un tempo in cui le teologie scatenavano guerre e ci si presentava ai dibattiti letteralmente armati di asce da battaglia, e che appunto sperava di dimostrarsi “ad usum pacis”.
Sappiamo cosa è stato poi di quell’alba, inghiottita dal crepuscolo fiammeggiante e tenebroso della Riforma e Controriforma, eppure il sogno di riuscire a cogliere l’alfabeto della creazione è proseguito come un fiume carsico nella filosofia e poesia europea, in Schelling, Novalis, nella teosofia di Steiner, persino nella prefazione che il cardinale (non creato) Von Balthasar scrisse per un anonimo trattato cristiano sui Tarocchi, appunto. Lo si ritrova in tutta la cultura russa d’inizio Novecento, così come nei rituali magici della Golden Dawn cui parteciparono Yeats, Crowley e il poeta sodale di J. R. Tolkien e C. S. Lewis, il Charles Williams che proprio ai Tarocchi dedicò un romanzo intitolato “La Danza dei Trionfi”, il quale a sua volta influenzò T. S. Eliot. Nell’immaginario del poeta della “Terra Desolata” le carte magiche e i riti sono sempre stati presenti, spesso con distorsioni ironiche, ma nei “Quattro Quartetti” egli si richiama esplicitamente al “Danzatore”, il Matto che ne romanzo di Williams occupa tutti i posti e nessuno, affermando che al centro dell’universo c’è un punto fisso e “se non nel punto, nel punto fermo non c’è danza e c’è soltanto la danza… circondati dalla grazia del senso, bianca luce ferma e in movimento”.
E’ un quesito importante, decisivo. Possiamo davvero riconoscere un modello nella realtà? E questo lessico, fatto di immagini e concetti che pare possedere una particolare riserva di senso, proviene da dentro o fuori di noi? Chi scrive se lo chiede a ogni compleanno, recandosi al tempio di Minerva, a Fiesole, a trovare l’Atena che ha amato fin dai tempi dell’Odissea letta da bambino: quelle colonne spezzate, quei gradoni mi comunicano qualcosa perché c’è davvero una saggezza che ci precede nel tempo, e a cui possiamo chiedere di uniformarci, o “solo” per le infinite letture che si sono stratificate nel mio sguardo? Certamente, ogni tradizione è anche inventata e luoghi e simboli si caricano persino per mera stratificazione. Il rovesciamento (ma non la negazione) di questa dinamica è il feticismo privato e collettivo, spesso dissezionato dal bisturi implacabile di Proust.
“Ammirate l’imperatore” afferma uno dei personaggi dello stesso Williams, riferendosi a un vigile urbano. Nelle sue intenzioni ciò costituisce un’affermazione al tempo stesso ironica e serissima. I nostri gesti e ruoli sono sempre goffi e difettosi rispetto alla cornice di senso in cui li inseriamo, eppure in qualche misura la incarnano davvero, e occorre ricordarsene. Una coppia di innamorati sulla spiaggia sono davvero gli Amanti, un maestro o uomo di genio è davvero un Mago. Come scrive Francesca Matteoni contemplando l’immagine del Giudizio: “Non nego il rimorso, il senso di inadeguatezza, la corsa per raggiungere quelle figure impossibili che escono dalle tombe, i se e i ma che ci tormentano nei morti. Eppure io posso soltanto restare viva. Cercarli nella memoria, incontrarli all’improvviso, sapere che attraverso di loro, cerco me stessa”. Abbiamo bisogno di scendere sotto la soglia della confusione quotidiana, della fretta reattiva, e compito dell’arte (della magia?) è proprio caricare (o scoprire) questa profondità ulteriore nei gesti e nelle cose e nei luoghi, per non farci assordare da questo “mondo che cinguetta”, come scriveva sempre l’Eliot dei “Quartetti”. Twittering, appunto.
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