I seimila anni del pane

Roberto Persico

La recensione del libro di Heinrich Eduard Jacob edito da Bollati Boringhieri (464 pp., 22 euro)

E’ un luogo comune dire che un libro di storia si legge “come un romanzo”. Ma a volte è vero. Specie se è un libro che viene – culturalmente parlando – da un altro pianeta. I seimila anni del pane esce infatti per la prima volta nel 1944; il suo autore è un ebreo tedesco, giornalista e scrittore, protagonista della vita culturale berlinese negli anni di Weimar. Per sfuggire ai nazisti, nel 1933 Jacob lascia la Germania per l’Austria; ma con l’Anschluss viene catturato e spedito prima a Dachau e poi a Buchenwald. Ne esce nel ’39, grazie all’opera della donna che lo sposerà, che riesce a far intervenire in suo favore le autorità americane. Emigrato negli States, qui si dedica a mantenere la promessa fatta in gioventù a un suo maestro: scrivere la storia del pane. Il testo che ne esce, ora ristampato, è lontanissimo dai canoni della storiografia erudita; è piuttosto il resoconto di una interminabile storia d’amore: “Per quindicimila anni l’epopea del grano si è confusa con l’epopea dell’uomo. Possiamo dire che l’uomo ha trasformato il grano selvatico in un animale domestico. Esso segue l’uomo ovunque perché ha bisogno delle deiezioni della sua economia. E morrebbe immediatamente senza l’uomo. Il grano dipende più del cane dalla bontà del padrone, perché il suo seme aderisce così fortemente al fusto che il vento non può più seminarlo; si può riprodurre solo per mezzo della semina artificiale”.

 

Una relazione che ha la sua preistoria nelle straordinarie doti di osservazione degli uomini, e più probabilmente delle donne, del Neolitico, che imparano a selezionare le varietà di cereali selvatici più facili da addomesticare; che ha il suo inizio ufficiale con la scoperta, lungo le sponde del Nilo, della misteriosa capacità della farina impastata di gonfiarsi e di diventare, esposta al calore, una pagnotta fragrante; che a Roma diventa il motore dell’economia e la chiave del potere; che nel Medioevo lega i nomadi germani alla terra e a volte stermina intere regioni con l’infestazione da segale cornuta; che all’alba dell’epoca moderna diventa lo spunto di infiniti massacri tra chi crede che sia il corpo d’un dio e chi no; che porta allo scoppio della Rivoluzione francese e decide chi vince la Grande guerra e chi la perde; e così via, secolo dopo secolo, fino alla promessa hitleriana ai contadini tedeschi: condurli a seminare la loro segale nelle terre degli slavi.

E, come in ogni storia d’amore che si rispetti, coinvolge l’intera esistenza dei protagonisti. Nel libro infatti c’è tutto, tecniche, cultura, potere, religione: le civiltà sono interamente rilette dal punto di vista dei mille fili che le legano al loro cibo fondamentale. E non manca la drammatica esperienza diretta: “A Buchenwald quel che si chiamava pane era una miscela di farina di patate, di piselli, di segatura di legno. E nondimeno lo chiamavamo pane, in memoria del pane genuino che avevamo mangiato un tempo. Il pane è sacro. E il pane è profano. E’ meraviglioso quando tutti possono averlo”.

I seimila anni del pane
Heinrich Eduard Jacob
Bollati Boringhieri, 464 pp., 22 euro 

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