No, la letteratura non rende per forza migliori
Perché scrivo? Non lo so. Ma comincerei col dire che esiste una componente di vizio
Leggo spesso bizzarre interviste in cui scrittori e scrittrici di moda e di posa rivendicano il boccone amaro che dev’essere l’atto della lettura, e il valore supremamente urticante del romanzo, la cui necessaria spiacevolezza costoro si industriano a celebrare, osando talvolta inalberare anche un brindisi alla cartavetro con la quale ci massaggiano le consapevolezze. Le tesi a supporto rifulgono di questa cammellata argomentazione: siccome un romanzo svela a noi stessi ciò che ci ostiniamo a ignorare, trovando i nomi giusti all’anonimato dietro cui celiamo le nostre più segrete istanze, ecco che leggere non può e non potrà mai risultare un atto tranquillizzante (sottinteso: come, al contrario, tanta paraletteratura permette che sia) ma un atto semmai fastidioso, controverso, che ci lascia e ci deve lasciare meno tranquilli di prima.
Denuncio un mio limite: non sono mai stato capace di ammettere, nemmeno seduto davanti a un pubblico che avrebbe apprezzato fino a spellarsi le mani, che un romanzo sia un oggetto contundente, o che leggere debba lasciar lividi, bitorzoli ed ecchimosi in nuance melanzana. Né però – fermi tutti! – posso collocarmi tra coloro che leggono il libro di Giulia De Lellis (ignoravo chi fosse, poi un giorno ho comprato una celebre rivista e tutto s’è chiarito). Ma – fermi di nuovo! – meno ancora traggo inestimabili godurie nel gettarmi nel fuoco in nome della vera cultura che sta affondando sotto i colpi della carta straccia mentre una volta gli operai leggevano Proust. Inoltre – fermi ancora un momento! – sono anche fermamente convinto che la letteratura non renda per forza migliori, e che chi legge non sia necessariamente persona nobile, e che porsi dieci gradini sopra il lettore con la presunzione di una missione (quella di rivelargli qualcosa a bastonate, infine cantar la pretesa che quel bastone venga accarezzato in quanto prezzo per accedere all’infinitamente alto che noi, in quanto scrittori, gli concediamo) non solo faccia male alla lettura e alla scrittura, ma sia anche ascrivibile ai sintomi di un delirio patologico.
Dividerei il discorso in due parti. Perché leggo? Non lo so. Ma comincerei con l’ammettere che esiste un’innegabile componente di vizio. Leggo come fumano quelli che fumano: mi gratifica, mi piace, ripeto l’esperienza di piacere, ne voglio di più. Poi c’è l’importanza, che riconosco altrettanto innegabilmente, della conoscenza. Leggo come viaggiano quelli che viaggiano: so di non poter vedere tutto, ma faccio il possibile per addentrarmi in qualcosa che non mi appartiene, e quel che mi sfugge (tanto, quasi tutto) lo completo con l’immaginazione. Infine, è innegabile il fascino che ogni processo di trasformazione estetica ha sulla mia anima. Leggo come chi assista alla lavorazione di un blocco di marmo in una statua: ammiro la maestria dello scultore, contemplo la materia trasformarsi, sento dilagare in me la bellezza del risultato.
Perché scrivo? Non lo so. Ma comincerei col dire che esiste una componente di vizio. Scrivo e mi piace dar voce a una storia, costruire un’immateriale macchina verbale e farci salire un lettore – che nella mia testa sono sempre io, alla luce della regola aurea “non scrivere ciò che non leggeresti mai”. Poi c’è l’importanza dell’esplorazione umana ed emotiva, cioè politica. Scrivo per nutrire una consapevolezza di consanguineità, essendo medesima la materia di cui siamo fatti tutti, uomini e donne, e medesimi i desideri, le frustrazioni orizzontali, le aspirazioni verticali. Infine, scrivo non perché sia una dimensione vicaria della vita, ma perché è una delle sue espressioni – di certo una delle più ricche. Scrivo non perché rappresenti un’altra possibilità, ma perché scrivere è l’altro di ogni possibilità. Non mi aspetto dalla scrittura alcuna rivelazione urticante né dalla lettura alcun trauma cranico. Quando leggo o scrivo sono un essere umano che si rivela a ciò che legge o scrive (esattamente il contrario del meccanismo millantato dai prevosti della letteratura-bastonata) e lo fa brillare con la propria sensibilità, dunque sono io che faccio risuonare quel che leggo con gli strumenti della mia orchestra, perché non si dà scrittore senza un lettore che lo faccia esistere. Rivelarmi a ciò che leggo mi mette davanti a me stesso, mi pretende proteso tra cose che so e che non so. Leggere non è prender bastonate e scrivere non è pretendere di darle. Leggere e scrivere sono la gioia di una relazione reciproca. Sono – per me – la verifica di una continua riconoscenza.
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