La memoria come metodo. L'ossessione di Lalla Romano
Da “La penombra che abbiamo attraversato” a “Ritorno a Ponte Stura”, scrittrice prolifica e grande narratrice per immagini, oltre che per parole
“In testa un cappellino scuro, elegantissimo. Seduta lì in mezzo a quella calca mi fece pensare a una regina matronale, nordica, proveniente da un paese immaginario ma insieme terrestre. (…) Aveva già ottantadue anni ma era una vecchia ragazza, quella che stavo spiando”. Mario Fortunato ricorda così il suo primo incontro con Lalla Romano, donna riservata, schiva, piemontese di nascita e di indole, che tendeva a tenersi lontana dal clamore del mondo editoriale e intellettuale.
Da “La penombra che abbiamo attraversato” a “Ritorno a Ponte Stura”, la Romano fu scrittrice prolifica e grande narratrice per immagini, oltre che per parole. L’autobiografismo è l’elemento attorno al quale ruotano molti dei suoi scritti più famosi, compreso “Le parole tra noi leggere”, che esattamente cinquant’anni fa le valse il Premio Strega. La sua scrittura asciutta, compatta e senza sbavature, ritmica e, sul piano lessicale, economicamente severa, non accoglie sentimentalismi ma abbraccia la memoria nella sua totalità, trasformando i ricordi non in uno sterile tentativo di racconto autobiografico, ma in qualcosa di diverso, che scavalca senza difficoltà l’ostacolo dell’autobiografismo stesso. Le immagini dell’infanzia che si affastellano nel suo racconto, e poi quelle della madre e del padre a Demonte – paese di origine – e in generale il racconto-pellegrinaggio nel mondo perduto della gioventù, non sono delle àncore che la immobilizzano nel passato, ma strumenti con cui camminare nel presente sbirciando così in un tempo futuro. Ma, nonostante si parli del suo ambiente famigliare e dei luoghi che lo hanno caratterizzato, il romanzo più autobiografico della Romano non è, come molti pensano, “La penombra che abbiamo attraversato”, bensì “Le parole tra noi leggere” – titolo che trae ispirazione dal primo verso di “Due nel crepuscolo” di Eugenio Montale.
Sebbene si rendesse conto che la definizione di “autobiografici”, rivolta ai suoi libri, fosse corretta, Lalla Romano non accettò mai del tutto questa dicitura, asserendo perfino che “se il libro fosse definito autobiografico lo considererei fallito” perché, come afferma lei stessa in conversazione con Vittorio Sereni, “parlo di persone che ho conosciuto, riscontrabili nella mia biografia”. Precisazione non da poco, soprattutto in riferimento a “Le parole tra noi leggere”, in cui la Romano affronta con autenticità e schiettezza, senza limiti né freni, il doloroso rapporto con il figlio Piero. E questo sì, che è il libro più autobiografico, perché tutto ruota certamente attorno alla figura del ragazzo, “un personaggio vicinissimo e allo stesso tempo lontanissimo”, così intimo ed estraneo come solo un figlio può esserlo; ma è pur vero che in questo caso svetta anche il profilo della Romano madre, colei che girò sempre intorno “con circospezione, con impazienza, con rabbia” a quel figlio sfuggente, carico di risentimento e dallo sguardo torvo, provocatorio fin da tenerissima età. Un figlio che sembra rimproverarle qualsiasi cosa, a partire dal fatto che, ancora in fasce, non venisse allattato con la cadenza e negli orari esatti. E a nulla fu valsa la ripresa successiva, a nulla i tentativi seguenti di dargli più spesso da mangiare: “Non ha mai più avuto fame”.
Dell’esplicito e pur tuttavia mal tollerato autobiografismo, la Romano ne fece il suo tratto distintivo; ma occorre fare attenzione, perché la sua non è “memoria come culto” ma “memoria come metodo”. Questo scavare quasi ossessivamente nel passato, ripescando fatti, individui e paesaggi, è il suo modo di stare al mondo, di percepire le cose, di arrivare a toccarle e finanche di sprofondare fin nel punto più basso, aggirando, in questo modo, le cose stesse, come disse Sereni. E’ il suo modo di raggiungere la realtà, e così tentare di rappresentarla. C’è concretezza, tangibilità immediata nella memoria di Lalla Romano. Una memoria presente, scottante, che si agita di fronte al processo della vita continua. Per questo “Le parole tra noi leggere” è il suo libro più autenticamente autobiografico, genuino e per questo il più sofferto: tra quelle pagine c’è la coscienza materna che entra enormemente in crisi, “di modo che questo libro è anche un libro sugli errori delle madri”.
Incomunicabilità, smarrimento e disagio: sono questi gli elementi che testimoniano un fallimento relazionale doloroso, a cui l’autrice dà voce grazie al racconto di sé e della propria lacunosa quotidianità materna. Ebbene, a questo punto: chi ha ancora paura dell’autobiografia?
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