Emanuele nella battaglia

Nadia Terranova

La recensione del libro di Daniele Vicari, Einaudi, 376 pp., 20 euro

Può la scrittura darsi il compito di riparare ciò che si è spezzato? Passiamo il tempo a rispondere di no, che non bisogna metterle sulle spalle nessun obiettivo terapeutico né sovrapporla alla parola “guarigione”, ed è tutto vero – finché non arriva un libro che cura, ripara, lenisce, e allora tutto ciò che pensavamo della letteratura si capovolge, oppure no, è sempre stato così, la riparazione avviene epifanicamente se non è stato l’autore a dare alla scrittura un compito ma quel compito si è dispiegato da solo, nel movimento del mostrare (“mostrare” è il verbo che secondo Flannery O’Connor più si addice al racconto). Così, piangendo in mezzo a un romanzo che mostra la cronaca sotto un profilo complesso, ci stiamo già interrogando sulla possibilità di una giustezza morale: Emanuele nella battaglia di Daniele Vicari racconta gli orrori del delitto, quelli dei colpevoli e quelli sollevati dal chiasso intorno, dai testimoni e conniventi, dai commentatori da social network. Il regista di “Diaz”, “Velocità massima”, “Sole cuore amore” porta sulla pagina la stessa capacità che ha al cinema di farci sentire la tortura del corpo, l’asfissia della ragione, la sadica insensatezza degli eventi, il labirinto della provincia e la brutalità della solitudine sociale, facendoci miracolosamente guardare alla cronaca senza passare dal voyeurismo. Questo libro, nato da quell’empatia con certe storie che è una vera e propria forma di amore, narra la vera storia di Emanuele Morganti, morto di botte nella notte tra il 24 e il 25 marzo 2017, e di Melissa, la sorella, che quella notte si spezza in due. La ragazza di Alatri nata in mezzo a due fratelli (Emanuele e Francesco), con una vita come mille altre, superficiale e intensa come sono le vite di tutti, alla morte del fratello cambia pelle e diventa altro da sé, deve farlo per sopravvivere e per onorare un obiettivo impossibile: capire (“Melissa registra tutto, rileva ogni minima incongruenza”).

 

In un crescendo analitico, comincia a vedere suo fratello come un ologramma che pian piano viene a fuoco e si materializza, si anima, si muove… Lo vede lì che si dimena, scappa ovunque in quella piazza per sottrarsi alle belve. Vede che vuole vivere disperatamente ma ovunque vada qualcuno lo colpisce…”). Gli occhi di Melissa sono protagonisti di questa storia in absentia, come protagonisti sono gli occhi dell’autore (“Me lo dico, me lo ripeto: non devi giudicare, devi solo raccontare Emanuele nella battaglia”). Protagonisti sono la presunta invulnerabilità dei vent’anni, l’età in cui più di tutte si flirta con la morte, le cento versioni di cosa sia accaduto quella sera, l’ostinazione di chi resta, la dignità di chi scrive.

 

Può un libro trasformare la disperazione solitaria in uno sguardo comunitario? La risposta è anche nella quantità di lettori che decideranno di non volgere altrove lo sguardo, perché un gesto letterario è sempre un gesto politico, e stavolta più di altre. 

  

Emanuele nella battaglia

Daniele Vicari

Einaudi, 376 pp., 20 euro

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