Nel Profondo
La recensione del libro di Daisy Johnson, Fazi, 270 pp., 18 euro
I luoghi dove siamo nati tornano a noi. Si travestono da parole, vuoti di memoria, incubi. Sono il senso di oppressione quasi animalesco che sentiamo certe volte in petto, quando ci svegliamo; sono una persona cara che credevamo di avere perso e che invece se ne sta lì in piedi a guardarci mentre accendiamo la luce”. Gretel non vede sua mamma da sedici anni. Una mattina di molti anni prima, la donna, che non crede che la famiglia fosse un legame sufficiente a tenere insieme le persone, abbandona tutti e se ne va per sempre. Sua figlia è soltanto una bambina. Ogni mattina, guardandola, la donna pensa: “Ora devo amarla”. Non ci riesce, è molto più forte l’impulso di scappare. Va via senza pensarci, e in un giorno qualsiasi smette di essere madre e diventa un’ombra che divora il cuore della creatura che ha messo al mondo.
Le due donne si ritrovano all’improvviso, dopo anni di silenzi forzati, incomprensioni, dolore e rancore, compleanni dimenticati, la vita che va avanti e che tutte le notti presenta il conto costringendo Gretel a farsi un’unica domanda: perché te ne sei andata? Comincia così Nel profondo, il romanzo d’esordio di Daisy Johnson, la scrittrice inglese che a ventisette anni, con questo libro, è diventata la più giovane scrittrice in assoluto a essere inserita tra i finalisti del Man Booker Prize. Il libro è un viaggio nella memoria tra le tracce sepolte del passato. Dimenticare è una forma di legittima difesa, ma è tutto inutile. Il ritorno di sua madre costringe Gretel a scavare nei ricordi, nella sua infanzia selvatica lungo un fiume tortuoso, tra le parole che si inventavano, la loro vita da aliene, estranee rispetto al mondo, il mostro che viveva sotto di loro e i cumuli di dolore dopo l’abbandono: “Eri un fantasma dentro al mio cervello, dentro al mio stomaco. Cominciai a chiedermi se fossi mai esistita davvero”.
Madre e figlia si ritrovano, ma ormai è troppo tardi. La guerra è finita ed entrambe hanno perso. Sarah è malata, ha l’Alzheimer, “cerchi le scarpe e ti dimentichi di averle ai piedi. Cinque o sei volte al giorno mi guardi e mi domandi chi sono, oppure mi dici vattene, vattene via. Mi chiedi come sei finita qui, in casa mia. Te lo ripeto ogni volta. Ti scordi come ti chiami e non trovi il bagno. Tu non sei Gretel, mi dici. Mia figlia Gretel era scatenata, era bella. Tu non sei mia figlia”. A volte Gretel fa pensieri orribili, inconfessabili: “Sarebbe così facile se avessi un infarto”. La donna che le sta di fronte non è sua madre, la persona che ha cercato per decenni, ma soltanto una vecchia che ha perso. Un giorno, tanti anni prima, un signore aveva messo nelle mani di Gretel una grossa arancia, la parte di cervello che una persona perde quando ha l’Alzheimer. “Ti voglio bene”, le dice Sarah. Gretel rimane in silenzio, non sa cosa rispondere, l’unica cosa di cui è sicura è che sua madre le mancherebbe, se andasse via di nuovo. “Guarda che fine abbiamo fatto. Siamo l’ombra di noi stesse, due miserabili votate all’autodistruzione o a massacrarsi a vicenda”. I figli si ricordano tutto, il risultato di ciò che sono dipende da chi li ha messi al mondo, il loro amore o la loro assenza. “I luoghi dove siamo nati sono il nostro midollo. Dietro la mia pelle ci sei sempre e solo tu”.
Daisy Johnson,
Fazi, 270 pp., 18 euro