Il perduto incanto
Il libro di Salvatore Piermarini, Rubbettino, 470 pp., 24 euro
Nell’èra della produzione compulsiva di massa di immagini digitali, l’azione che chiamiamo convenzionalmente “fotografare” si pratica mettendo necessariamente tra sé e lo schermo dello smartphone una certa distanza, che ci dà l’inquadratura desiderata. Non è così quando si opera con l’apparecchio fotografico “classico”, che vuole l’occhio vicinissimo al mirino, con il fotografo chiamato a una simbiosi quasi carnale con la macchina. E’ lo stesso selfie vecchio stile allo specchio, che cela dietro all’apparecchio il volto di chi scatta, a mostrare quella simbiosi. Si potrebbe allora dire che è tutta lì, nella distanza minuscola e immensa che corre tra due azioni apparentate ma diversissime, lo spazio in cui è andato disperso “il perduto incanto” di cui ci parla il fotografo Salvatore Piermarini. Questo suo saggio-racconto profondo e ricco, non solo di immagini, diventa via via un viaggio attraverso duecento anni di esercizio dello sguardo alla ricerca della presa sul reale, smentita oggi dall’apparenza democratica e banalizzante dei clic digitali universalmente praticati. “Il perduto incanto” non è un amarcord piattamente nostalgico di camere oscure, e non vuole nemmeno essere una storia della fotografia. E’ semmai il suo romanzo, uno dei tanti possibili, a partire dall’esperienza di chi, come Piermarini, fotografa da più di mezzo secolo, sempre in bianco e nero e sempre su pellicola, a parte rarissime eccezioni, e in tutte le possibili declinazioni: dal reportage al ritratto, allo still life estemporaneo che la realtà – sempre la realtà – offre agli occhi di chi decide di voler vedere. Questa singolare “autobiografia dello sguardo” tributa il suo omaggio ad alcune lezioni fondamentali – prima di tutte quella di Ugo Mulas – mentre raccoglie e rielabora suggestioni e indicazioni di percorso che arrivano da artisti come Cesare Tacchi e da studiosi come Vito Teti, per citare due amici fraterni dell’autore. Dai paesaggi metropolitani e industriali alla scena dell’arte contemporanea – di cui Piermarini detiene un eccezionale archivio di immagini e ritratti – fino alle feste religiose del meridione italiano, soprattutto dell’amata Calabria, o ai viaggi tra le macerie dell’Aquila e del più recente terremoto del Centro Italia, l’essenza del lavoro di Piermarini si rivela, al fondo, di tipo filosofico. Lo scrittore Julio Cortázar, citato nel libro, ha scritto che “fra i molti modi di combattere il nulla, uno dei migliori è quello di scattare fotografie, attività che dovrebbe essere insegnata precocemente ai fanciulli, perché richiede disciplina, educazione estetica, buon occhio e dita sicure”.
“Principio dei mali è la disattenzione”, diceva l’abate Pastor, uno dei grandi Padri del deserto. Per chi decide di “voler vedere”, come Salvatore Piermarini, l’attenzione è una filosofia e un modo di vivere, prima ancora che un ferro del mestiere.
di Salvatore Piermarini
Rubbettino, 470 pp., 24 euro
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