La parte inventata
La recensione del libro di Rodrigo Fresán, LiberAria, 702 pp., 25 euro
Per godere appieno dell’esperienza di leggere La parte inventata dello scrittore argentino Rodrigo Fresán bisogna partire da un presupposto: è meglio lasciarsi trasportare dalla non linearità e dalla casualità degli eventi, liberando la mente da preconcetti e non cercando nella sua mole fisica (700 pagine) un “romanzo-mondo” ma un nuovo mondo del romanzo. Un viaggio verso il mistero della contemporaneità. Linee non tracciabili che si intersecano in una narrazione che cambia più volte registro con una naturalezza disarmante e destabilizzante. In un gioco all’imbuto dove si cerca di sintetizzare sempre più il macro-mondo e si scende nell’essenzialità del tutto. Non a caso nel romanzo lo scrittore protagonista si intrufola al Large Hadron Collider del Cern per fondersi al Bosone di Higgs e disintegrarsi diventando la “particella di Dio” e proprio come un dio pagano e ambizioso diventa uno scrittore che contamina tutto pur non esistendo più nella sua forma primitiva e corporea. E se – pur non esplicitamente – fosse una corrosiva e sarcastica derisione dell’evanescente presenza sui social? Siamo lì, ma non ci siamo per davvero. Lo scrittore non c’è ma determina tutto, un narratore onnisciente, onnipresente (pur non esistendo) e nelle intenzioni onnipotente. E quindi può fare qualcosa di diverso da quello che già sa che farà? Un paradosso – uno dei tanti – che Fresán contestualizza in una narrazione che si muove tra un ipertrofico abuso di elementi cinematografici, letterari e musicali e una forma quasi filosofica e lieve di descrivere concetti e pensieri che si mescolano tra loro in forma armoniosa anche se – nel complesso – si potrebbe definire un libro squilibrato. Non nel senso di folle, anche se la linea che separa il genio dalla follia è molto sottile, e forse – come diceva Carlo Dossi – il genio è solo una varietà della pazzia. La mancanza di un equilibrio è la forza di questo romanzo che ha parti più leggere e comiche sovrapposte ad altre più dense e dolorose, quasi impercettibili. Il libro parte da uno spunto semplice (Come cominciare?) e poi esplode letteralmente in linee narrative differenti senza – apparentemente – nessun legame tra di loro. Un quadro di insieme che è comprensibile solamente facendosi trasportare e seguendo il sentiero che Fresán traccia con maestria mescolando generi, stili e forme. Dentro il romanzo c’è tantissima musica, sembra quasi che l’autore voglia portare il lettore in un’altra dimensione dove si possa ascoltare una canzone solo leggendola.
Come scrive correttamente Vanni Santoni nell’introduzione, il romanzo non può essere paragonato a Rayuela di Julio Cortázar o a 2666 di Roberto Bolaño, non per la qualità del libro ma per l’idea stessa che c’è di fondo. Non sono le intenzioni a cambiare, ma il concetto stesso di romanzo che va oltre l’assimilazione del postmodernismo, del realismo magico e anche dell’infrarealismo e ha l’ambizione potente di creare qualcosa di nuovo e mai esistito, qualcosa di inventato e sognato pur rimanendo brutalmente contemporaneo. E la casualità degli eventi narrati è contrapposta alle certezze delle intenzioni dell’autore, a partire dal titolo. La parte inventata è quella creata dall’uomo che lo rende dio di sé stesso e lì dentro c’è qualcosa di terribilmente attrattivo e bello. Forse la parte migliore.
Rodrigo Fresán
LiberAria, 702 pp., 25 euro
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