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Il tarlo della verità che mai abbandonò Dino Buzzati

Daniele Mencarelli

Nel secolo del realismo ideologico, dove a prevalere fu la linea gaddiana dell’espressionismo narrativo, Buzzati saltò agli occhi come una mosca bianca da schiacciare: troppo visionario, troppo fiabesco

Se mai esistesse una classifica degli autori più avversati in vita, a fronte di un talento rinascimentale, dilagante ed eclettico, si dovrebbe collocare nei primissimi posti Dino Buzzati. Pittore prestato alla letteratura, giornalista di nera, inviato di guerra. In una parola artista, in primis di vita vissuta.

  

La parabola esistenziale di Buzzati copre gran parte del Novecento e dei suoi eventi sconvolgenti e indimenticati.

  

Nato a San Pellegrino di Belluno nel 1906, da famiglia borghese, il padre era docente di Diritto a Pavia, poi Milano, il buon Dino inizia a scrivere dagli anni del liceo e non smetterà mai più. Tenterà, in buona sostanza, tutti i generi letterari, dal racconto breve al romanzo, sino alla poesia e al fumetto.

 

Parallelamente, forse questa la sua sfortuna in vita, entra ad appena 22 anni al Corriere della Sera. L’attività giornalistica sarà l’altra grande arena della sua vita e della sua scrittura. Negli anni del conflitto mondiale parte come inviato di guerra, prima ad Addis Abeba, poi Messina, sempre a braccetto con la Storia. Dalla Liberazione in poi continuerà a fare il giornalista, in special modo di cronaca nera, i suoi pezzi saranno corredo dei fatti più incresciosi del secolo passato.

  

Chissà, forse sarà proprio questa professione, questo attaccamento viscerale alla realtà, anche la più orrida, a fargli preferire una letteratura immaginifica e sospesa, fatta di colori e luoghi di altri mondi, sempre e solo per raccontare al meglio il nostro. Ma il canone novecentesco puntava altrove ed esigeva fedeltà al reale, che è cosa diversa dalla realtà. Nel secolo del realismo ideologico, dove a prevalere fu la linea gaddiana dell’espressionismo narrativo (vedi Mengaldo), Buzzati saltò agli occhi come una mosca bianca da schiacciare, troppo visionario, troppo fiabesco, altra cosa rispetto a Calvino, dove la fantasia si ergeva a divertimento letterario, mentre in lui diveniva simbolo metafisico, maestoso e altero.

 

E’ del 1940 il capolavoro di Buzzati, “Il deserto dei tartari”, opera narrativa imprescindibile del nostro Novecento, ode alla vita come grande atto di preparazione alla morte. Giovanni Drogo, l’ufficiale dell’esercito protagonista del romanzo, è un antieroe che finirà logorato da se stesso e da un luogo, la Fortezza Bastiani, in attesa di una guerra che diventerà celebrazione della morte, attraverso la nevrosi, la lenta macerazione di una psiche che non può reggere se non attraverso l’autodistruzione. Ancora a oggi, confrontando il patrimonio genetico di questo protagonista a quello di migliaia di altri presunti suoi colleghi sputati fuori dall’editoria grande e piccola, salta agli occhi il rango di questo personaggio, sempre e solo contemporaneo, come accade alla letteratura che si fa classica per meriti, tradizione inattaccabile. 

Per entrare nel mondo buzzatiano, per conoscere da vicino uno scrittore e il clima contro il quale si trovò suo malgrado a cimentarsi, appare di grande utilità il libro di Antonia Arslan, “Dino Buzzati bricoleur & cronista visionario”, edito da qualche mese dalla Ares Edizioni. Merito della Arslan è senz’altro quello di ricostruire con minuziosa dedizione il panorama letterario e culturale dell’epoca, attraverso testimonianze eminenti, da Montale a Montanelli solo per citare qualche nome dei tanti. Ma il suo merito più grande è un altro: aver restituito per intero la poetica di Buzzati, il suo punto di vista sulla vita e sulla letteratura, sul giornalismo. Semplicemente indiscutibile, solo per fare un esempio, è quanto dice il buon Dino riguardo proprio le sue varie scritture, in apparente antitesi: Il giornalismo, per me, non è un secondo mestiere, ma un aspetto del mio mestiere. L’optimum del giornalista coincide con l’optimum della letteratura. E non vedo come la pratica del giornalismo possa nuocere a uno scrittore. Certe esperienze cronachistiche, anzi, penso che siano nettamente vantaggiose agli effetti artistici.

 

Vita e realtà come motori della lingua, anzi, delle diverse lingue che era in grado di utilizzare. Ma, come spesso accade ai grandi, l’opera di Buzzati non fu particolarmente amata, gli si accostava Kafka, per frettolosa semplicità, e i giudizi furono spesso sprezzanti: nella scrittura di Buzzati si viene disturbati “da una presenza larvale ma perentoria, inquietante, l’ombra di Kafka”. Firmato Emilio Cecchi. Anche se poi si ricrederà rispetto al valore di Buzzati, rivedendo il suo giudizio nel corso degli anni.

 

Tutto l’isolamento vissuto, la cattiveria ricevuta, finisce con la sua morte, nel 1972. Da lì in avanti, a piccoli passi, la critica e l’immaginario della nostra società letteraria hanno recuperato Dino Buzzati, la sua maestosa ricerca di senso oltre la realtà, perché a questo desiderio obbediva la sua scrittura. Come ebbe a dire Carlo Bo all’indomani della sua morte: Dino Buzzati era roso dal “tarlo della verità”. Vissuto senza compromessi, senza limiti, e di genere e di intensità, come si conviene agli uomini nati vivi.

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