Pensare una società con la scuola ridotta al minimo
Non riusciamo più a concepire altre modalità di diffusione del sapere. Un libro di Ivan Illich
Diffido di chi non avverte la falsità irrimediabile della posizione dell’insegnante, e persino di chi non sente che “Ogni educazione è uno stupro”, come ha scritto Walter Siti. Diffido, insomma, di chi non considera la scuola un male minore. Ed è minore, s’intende, solo rispetto a “educazioni” peggiori della “merda” di cui parlava don Milani; ma se penso alle conseguenze della sua logica intrinseca, sono tentato di cancellare l’aggettivo. Chi ritiene la scuola un bene in sé vuole estenderla ovunque, e allora la distopia è alle porte. Il professor Germain ne mostrava a Camus il valore ma anche i limiti; nel tardo Novecento, il suo piglio severo ha lasciato il posto a una condiscendenza elastica, pervasiva, soffocante, che scolasticizza qualunque attività. Intrappolati nel ruolo di allievi in cerca di diplomi, dimentichiamo che la maggior parte delle cose le impariamo fuori dalla classe, per amore o per bisogno, nel dialogo con persone che condividono i nostri interessi e magari con maestri-amici che ci aiutano a formulare le domande a cui soltanto la nostra ricerca potrà offrire qualche risposta.
Se immagino a voce alta una società dove la scuola è ridotta al minimo, e dove si moltiplicano queste occasioni di dialogo, quasi sempre mi si dà del velleitario. Curiosamente i primi a farlo sono dei conoscenti che credono al comunismo, anche se non l’hanno mai visto, mentre non credono a un’esperienza che almeno un po’ abbiamo avuto tutti, cioè al fatto che l’apprendimento “in massima parte, non è il risultato dell’istruzione, ma di una libera partecipazione a un ambiente significante”. Così si esprime Ivan Illich nel suo “Descolarizzare la società” (1971) ora ristampato da Mimesis; e le reazioni, tra incredule e sdegnate, che spesso suscita una constatazione tanto ovvia, confermano la sua tesi secondo cui il curriculum scolastico si paga con l’incapacità di prendere sul serio altre ipotesi sulla diffusione del sapere. Per Illich, identificare la “possibilità d’istruzione” egualitaria con la scolarizzazione obbligatoria “è come confondere la salvezza eterna con la Chiesa”. A suo avviso non ha senso provare a cambiare la struttura educativa dall’interno, perché i metodi meno autoritari non sono che mode, e ricordano la “liturgia delle messe folk” inaugurata dal Vaticano II.
La scuola non è la soluzione ma il problema, dato che per natura riduce “bisogni non materiali” a “domande di prodotti”, confonde l’apprendimento con il controllo sociale, abitua a comportarsi da clienti, inculca l’idea che tutto è misurabile, separa l’educazione dal mondo suggerendo che il mondo non è educativo, e sottopone i più piccoli a un potere privo di garanzie costituzionali. Noi continuiamo a nutrire questo mostro di risorse illudendoci che possa attenuare le diseguaglianze, mentre invece le razionalizza. Nata dalla prassi gesuitica, la scuola moderna è al tempo stesso un’azienda gigantesca, una burocrazia sconfinata e un deprimente rito d’iniziazione globale. Contro le sue prassi manipolatorie, Illich propone reti conviviali di individui che si raccolgono intorno a esigenze culturali comuni, di tipo “umanistico” o “professionale”, prefigurando una realtà dove “l’educazione per tutti è l’educazione da parte di tutti”: “Descolarizzare significa abolire il potere di una persona di costringerne un’altra a partecipare a una riunione”, e insieme riconoscere che qualunque essere umano “ha il diritto di indire una riunione”.
Ma Illich ha ben presenti anche i rischi della descolarizzazione. Sa che “come i calvinisti soppressero i monasteri per poi trasformare tutta Ginevra in un unico convento”, la società potrebbe marginalizzare la scuola solo per diventare a sua volta un’unica grande aula o fabbrica scolastica nella quale a ogni aspetto della vita corrisponde un test. Oggi non siamo lontani da questo incubo. Nel frattempo, è vero, l’informatica ha facilitato la creazione di reti “orizzontali”; ma di fronte a tecnocrazie sempre più imperscrutabili, è aumentato il sentimento d’irrilevanza che scoraggia ogni tentativo di rendersi autonomi. Qualche anno fa ho trascorso un pomeriggio con un gruppo di educatori che discutevano del loro modo d’insegnare. E’ stato bellissimo. Verso la fine della riunione, però, su molte facce è apparsa una smorfia di angoscia: bisognava uscire da lì con un documento di proposte da opporre a quelle del ministero, e i fogli erano ancora bianchi. Senza una ratifica del genere, quella condivisione di esperienze che pure, riguardando ciò che accade in classe, non coincidono mai del tutto con la cornice burocratica, sembrava alla maggioranza un evento inutile, anzi irreale. Chi diseducherà gli educatori?
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