Storia della nostra scomparsa
La recensione del libro di Jing-Jing Lee, Fazi, 419 pp., 17 euro
Wang Di in coreano significa “speranza di un fratello”. Fin dalla sua origine Wang porta nel nome un’identità negata, un dover essere qualcosa di diverso da sé. Un non essere abbastanza. Siamo a Singapore durante l’occupazione giapponese (1942-1945), quando migliaia di donne vennero ridotte a schiave sessuali per soddisfare i desideri dei militari orientali di stanza in quei luoghi. Per confortarli. Come Wang Di venivano rapite, strappate alle loro famiglie e rinchiuse in “case bordello” – le comfort station – dove erano costrette a prostituirsi e subire ogni genere di sopruso. Perdevano dignità, desiderio di vivere e persino il proprio nome. Wang Di era diventata Fujiko e forse proprio grazie anche a questa nuova identità era riuscita a sopravvivere, a sentirsi meno coinvolta, meno colpevole di tutto quel male per cui non aveva nessuna colpa. Per tre anni aveva subìto ogni genere di violenza, cercando strenuamente di rimanere attaccata alla vita, di non farsi vincere dall’orrore. “Non pronunciavano mai il mio nome, non mi chiamavano neanche la figlia della signora Ng, come facevano quando ero piccola. Dopo vari giorni capii. Ormai non ero più Wang Di, almeno non per loro, ormai ero solo una wei an fu, una donna di conforto”.
Wang Di porta per una vita questo segreto inconfessabile dentro di sé, come una ferita impossibile da rimarginare perché non riconosciuta. Dalla società, dai suoi famigliari, dalle persone che le stanno accanto. “Ricorda. Non dire mai a nessuno quello che ti è successo. A nessuno. Meno che mai a tuo marito”. E Wang Di aveva ubbidito a sua madre. Non lo aveva detto a nessuno, nemmeno al marito Chia Soon Wei, anch’egli vittima dei giapponesi che gli avevano sterminato la prima famiglia, lasciando vivo solo il figlio e un nipote. Quel marito che lei chiama il Vecchio e che aveva sposato in tarda età perché lo stigma sociale era troppo forte e discriminante per lei, nemmeno a lui poco prima di morire la donna era riuscita a confessare questo fantasma del suo passato che l’aveva resa apatica, indolente, incapace di sperare. La vita però concede a Wang Di una seconda occasione. Ha il volto di Kevin, un ragazzino tredicenne povero e quasi cieco che viene a conoscenza di un segreto riguardante la sua famiglia e si mette sulle tracce di Wang Di, per restituirle un nome e un’identità che sembrava perduta per sempre.
Con sapienza letteraria e profondità Jing-Jing Lee racconta la storia di una famiglia – partendo dal dramma vissuto dalla propria – e intreccia trame e diversi livelli di lettura, raccordando temi importanti con equilibrio e grazia poetica. Restituisce la voce a tante donne che, come Wang Di, sono rimaste in silenzio, bloccate in un passato che è rimasto per loro un eterno presente. Perché raccontare, tramandare, dare voce a chi l’ha persa per sempre è l’unico modo per essere liberi. Per tentare di processare un dolore, per dargli una forma e provare a starci difronte. Per intravedere una possibilità di riscatto. Per non scomparire.
Questa è la storia di una scomparsa. Di un silenzio. E ora anche di una memoria.
Jing-Jing Lee
Fazi, 419 pp., 17 euro
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