Le ceneri di Babij Jar
La recensione del libro di Antonella Salomoni, il Mulino, 350 pp., 25 euro
A fine settembre 1941, un’ordinanza degli occupanti tedeschi convocò gli ebrei di Kiev per un “trasferimento”. Come nell’Antico testamento, le famiglie cuociono il pane prima di partire. Ma il cammino che li porta alla voragine dove, dopo insulti, percosse e spoliazioni, troveranno la morte, fa venire in mente la Passione. La meticolosità degli esecutori ci ha lasciato il numero preciso delle vittime: 33.771. E la gola di Babij Jar fu il primo sito in cui i sovietici invitarono la stampa internazionale per mostrare al mondo i crimini di guerra nazisti. Presto, tuttavia la natura selettiva e genocidaria dell’evento fu diluita nel conto generale dei caduti: nel discorso delle autorità le vittime, da “ebrei”, divennero non meglio precisati “cittadini sovietici”.
Antonella Salomoni, specialista della storia dell’Olocausto nei territori dell’ex Unione sovietica, ha interrogato e reso accessibili al lettore italiano un gran numero di fonti, componendo un racconto che va oltre i confini di Kiev e diventa un capitolo della storia dell’antisemitismo in Europa orientale e delle origini materiali e simboliche dello stesso sionismo. Fino al 1991 le autorità negarono al luogo dell’eccidio un memoriale ebraico. Tutta l’area, contenente resti umani carbonizzati e insepolti, fu anzi livellata con una colata di argilla, mentre il vicino secolare cimitero ebraico veniva distrutto. La memoria avrebbe trovato ostinatamente espressione nell’arte di dissidenti, ebrei e non, tra cui grandi esponenti della cultura sovietica come il poeta Evtusenko e il compositore Sostakovic. Una produzione letteraria fatta di pietà e di dolore, in qualche caso anche del tono della maledizione e della vendetta, insieme alla quale l’autrice ricostruisce il modo di agire e la mentalità dell’apparato censorio che inesorabilmente manipolava e puniva per ragioni ideologiche. Per i sovietici la volontà ebraica di commemorare era una forma di nazionalismo, un voler privilegiare una parte delle vittime dei nazisti in base alla loro appartenenza. Inoltre, l’estetica monumentale sovietica era votata al culto dell’eroismo di guerra e non intendeva dare spazio a vittime accusate di essersi fatte condurre docilmente alla morte. La ragione più profonda era che, nel mondo perfetto del socialismo reale, non si poteva ammettere che vi fosse ancora l’antisemitismo: non pochi di quelli che avevano collaborato allo sterminio erano ucraini, e gli ebrei erano oggetto di sospetto e di pesanti discriminazioni da parte dello stato. Le iniziative di chi voleva conservare la memoria dell’eccidio si legarono alle manifestazioni del sionismo in terra sovietica, dove lo stato d’Israele era diventato l’ultima disprezzata incarnazione del “nazionalismo borghese”.
Inevitabilmente molti ebrei ucraini – alcuni dei quali, a Babij Jar, avevano cominciato a pronunciare la preghiera del kaddish per i morti in una lingua che ancora non capivano – trovarono nella vicenda uno dei motivi più forti per giustificare la decisione di fare alyah.
Antonella Salomoni
il Mulino, 350 pp., 25 euro