Il senso vivo del Ricordo del commissario Ponzetti
Il protagonista della "Vendetta di Oreste" si fa venire incontro luoghi di Roma che pochi guardano e molti addirittura ignorano, come il Villaggio giuliano-dalmata
Il commissario Ponzetti conosce le storie delle persone nello stesso modo in cui conosce i luoghi di Roma. Non li va a stanare in cerca di una colpa, sono loro, le persone e le storie e i luoghi, che gli vengono incontro, gli si appiccicano fino a rimanerne intriso. Il commissario Ponzetti si fa venire incontro luoghi di Roma che pochi guardano e molti addirittura ignorano: non è tutto Roma criminale. Questa volta a venirgli incontro è il Villaggio giuliano-dalmata. Persino molti romani non sanno dov’è. Ottavio Ponzetti è il protagonista di una serie romanzi (ormai sono nove, tutti per Fazi) di Giovanni Ricciardi, scrittore umanista per indole e professione (è un classicista, insegna al liceo). Non hard boiled, non romanzi al sangue.
Il Giuliano-dalmata è verso sud, al confine tra il Laurentino e l’Eur, furono alcune famiglie di profughi giuliani a prendersi per prime le abitazioni abbandonate che erano state prima della guerra gli alloggi degli operai che costruivano l’Eur. De Gasperi con il fido Andreotti, quatti quatti, non era aria di bandiere, lo inaugurarono nel 1948. Nel 1955 arrivarono altri duemila profughi istriani e dalmati. Su una pietra del Carso posta in via Laurentina, dedicata ai “Caduti giuliani e dalmati”, ci sono gli stemmi di Zara, Fiume e Pola. Nomi inghiottiti dal silenzio per decenni, mentre l’identità sociale del Villaggio s’è stemperata, ma non perduta. È da lì che come da una bora fuori stagione e fuori rotta a Ponzetti vengono incontro una storia, alcune vite, il ricordo e i ricordi sepolti. Sotto vite ricostruite o riaggiustate, fatte della normalità di esuli che avevano trovato casa, o nascondiglio, lì al Giuliano-dalmata. Come Oreste, che s’era fatto una vita da geometra, ma non c’è più neanche lui, è il figlio a trovare di controvoglia le tracce di una sua vita passata, ma non del tutto cancellata. Non ci sono colpevoli da acciuffare, gente da condannare, armi del delitto da cercare. Anzi, una pistola c’è, ma neppure si sa se abbia mai sparato. E c’è una lettera d’amore o d’addio, ma scritta da chi? E a chi? È inviata a un Ulisse, non a Oreste. È una trina dolente di richiami classici, ma chi leggeva quei libri? Serve più la filologia dei metodi Csi per decifrare il passato. Ma questo è il poliziesco, lo lasciamo lì.
Qui, nei giorni del Giorno del ricordo, parliamo dell’altra storia di questo “La vendetta di Oreste” (222 pp., 16 euro). La storia che viene incontro, che torna fuori come un ricordo che va ricollocato al suo posto. Dalle strade e dalle case di popolo e di piccola borghesia del quartiere emerge una trama che diventa la Storia, è il bel pregio del libro. La storia della guerra, la storia delle violenze, della cacciata, di profughi che si trovarono in una volta sola senza due patrie, doppiamente schiacciati, il silenzio come unico riparo. Ma sotto la cenere la vita di prima è rimasta accesa, imperdonata.
Eccoci al punto. Dal libro escono i ricordi di due vicende vere, e tra le più dimenticate in questa storia italiana della dimenticanza. Una è la tragedia, che inizia nel 1943, degli operai comunisti dei cantieri navali di Monfalcone, anzi “stalinisti duri e puri”, che su pressione del partito andarono volontari a Pola e a Fiume per sostituire gli operai italiani che fuggivano. Per costruire le navi al Sol dell’Avvenire, ma anche forti di una buona promessa materiale. Finché la politica girò, divise Stalin e Tito, e quegli eroi volontari italiani e stalinisti diventarono in una volta sola traditori e italiani. Non capivano più niente, di quel che avevano creduto e che ora non potevano più credere. Non capire, essere traditi dai loro stessi compagni – loro che non erano “i fascisti” – fu quasi peggio di come furono trattati: rinchiusi nel gulag, al Quarnaro e chissà dove, ammazzati o ammazzati di lavoro. Ma Tito non era più l’amico di Togliatti e Pietro Secchia, la rivoluzione mangia i suoi figli e impone silenzi di ferro. I pochi che tornarono, gli espulsi dalla Yugoslavia, furono poi trattati da traditori dagli italiani anti comunisti, governo compreso. Anche loro, come gli altri, doppie vittime inconsapevoli.
La seconda storia ancora meno nota, e che Ricciardi fa emergere con sensibilità profondissima, è quella di Maria Pasquinelli. Una giovane fiorentina fascista, quasi una mistica dell’italianità che durante la guerra e l’occupazione nazi-fascista sarà volontaria a Spalato e poi a Pola, a insegnare italiano nelle scuole. Quando dopo il Trattato di pace di Parigi del 1947 l’esercito di occupazione britannico ammainerà le bandiere per consegnare Pola e la Dalmazia alla Yugoslavia comunista, la fiera nazionalista decide di compiere un attentato. Che avrà risonanza mondiale, e sarà una brutta gatta da pelare anche per il governo italiano. Non serve spoilerare (ma anche chi eventualmente conosce la sua storia forse ne ignora la fine). Lo spoiler vero è questo: la sua vicenda terminerà in modo completamente inaspettato, per lei prima di tutto, rispetto alle premesse e alle attese. Ed è forse qui, più ancora che nel passato romanzesco di Oreste, nella sua vendetta dissimulata in una vita di oblio, che per Giovanni Ricciardi sta il senso del Ricordo, “il sugo della storia”.
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