Mamma è matta, papà è ubriaco
La recensione del libro di Fredrik Sjöberg, Iperborea, 206 pp., 16,50 euro
Fredrik Sjöberg è un cacciatore di storie dal fiuto prodigioso. Grazie alla casa editrice Iperborea abbiamo imparato a conoscerlo, sorpresi dalla sua capacità di scovare tracce infinitesimali di esistenze dimenticate, barcollanti sul crinale dell’oblio, prendendosene cura, sostentandole, sino a farne libri di successo. Così è stato per il bestseller mondiale L’arte di collezionare le mosche, cui sono seguiti L’arte della fuga, Il re dell’uvetta e Perché ci ostiniamo. Nella sua singolare prosa, l’autore mescola ironia e fluidità tenendo le fila della storia e concedendosi numerose digressioni che arricchiscono il contesto, dando conto di quanto sia variegato il background culturale di questo autore che dal 1986 vive sull’isola di Runmarö, un paradiso naturale poco distante da Stoccolma, passando il proprio tempo fra la passione per l’arte – si reca alle aste, ha dichiarato in un’intervista, come stesse conducendo un’indagine – e studiando le mosche, di cui oggi è uno dei maggiori esperti al mondo. L’autore scrive che “gli incontri con l’arte sono una faccenda delicata” poiché, nel suo caso, sono capaci di risvegliare il fiuto da cacciatore e proprio il suo particolare modo di rapportarsi alla realtà è la scintilla da cui nasce questo nuovo libro, Mamma è matta, papà è ubriaco (tradotto da Andrea Berardini). Un romanzo-biografia che si innesca all’improvviso, nel momento esatto in cui a un’asta a Stoccolma viene messo in vendita un quadro del pittore danese Anton Dich. Chi era costui? Sjöberg si incunea agilmente nella sua biografia, andando a caccia di lettere e testimonianze, tessendone l’intricatissimo albero genealogico, muovendosi come un detective, un collezionista di persone dimenticate. Perché nessuna antologia parla di Anton Dich? Aveva talento, era amico di Modigliani e frequentava le avanguardie del primo Novecento parigino eppure non raggiunse mai la notorietà, sino a morire, solo e alcolizzato, a Bordighera nel 1935. E adesso, eccolo protagonista di questa narrazione, in un libro che non è una semplice biografia ma un viaggio d’esplorazione fra Copenaghen, la riviera ligure e la Costa Azzurra, partendo proprio da quel quadro, “Hanna e Lillan”, dipinto nel 1921, acquistato dall’autore (e riprodotto fra le pagine), innesco ideale per far scivolare nel racconto una gran sfilza di digressioni che non allentano l’attenzione del lettore, riuscendo ad ampliare lo sguardo, tratteggiando un’intera epoca, dissoluta e ormai perduta. E così, Sjöberg ci racconta le sorti di Eva Adler – moglie di Anton – e la potente dinastia degli Adler, facendo riaffiorare grandi nomi del passato – Brecht, Picasso e Gertrude Stein – e persino Adolf Hitler, già compagno di accademia di una delle sorelle Adler. Collezionista, entomologo o cacciatore di storie, Sjöberg ha il dono di farci appassionare a storie che avremmo facilmente snobbato, con il dono di saper punzecchiare la nostra attenzione, facendoci sentire vivi e affamati.
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