Remo Pagnanelli

Non fermarsi al limite naturale dell'esistere

Daniele Mencarelli

Tra i classici che tali diventeranno, spicca un marchigiano che ha tracciato su carta poesie indimenticabili, di pura e cristallina visione. Remo Pagnanelli

Chissà quando, a quale coraggioso animo di ministro, illuminato politico, un ossimoro visti i tempi, riconosceremo il merito di aver introdotto nelle nostre scuole qualcosa di novecentesco che non finisca ai soliti Sanguineti & Zanzotto & Montale & pochi altri, ma che da lì parta, per offrire in pasto alle nuove leve una mappatura della poesia dell’ultima parte del secolo passato. Perché il Novecento, in fatto di poesia, è stato sino all’ultimo giorno della sua secolare vita un periodo indimenticabile, generoso di nomi e personalità gigantesche, che rischiano di perdersi per sempre se qualcuno non li farà diventare canone, anche, scolastico.

   

Tra i classici che tali diventeranno, spicca in termini di temperamento e talento un marchigiano che ha tracciato su carta poesie indimenticabili, di pura e cristallina visione. Remo Pagnanelli, nato a Macerata nel maggio del ’55, e ivi morto suicida il 22 novembre del ’87, ad appena 32 anni. 

  

Il suo nome esplode da subito e si lega indelebilmente a un punto cardinale della nostra poesia: Vittorio Sereni. Dalla tesi di laurea in poi sono molti gli approcci di Pagnanelli verso quello che considera a ragione un maestro, in cui riconosce alcune tematiche assolutamente centrali per la sua produzione, in primis la relazione tra il verso e la prosa, dove a prevalere, infine, è sempre lo slancio lirico.

 

Le sue doti critiche di Pagnanelli non si fermeranno a Vittorio Sereni ma correranno di pari passo alla sua bravura poetica. Oltre al citato Sereni, vale la pena ricordare il lavoro critico su Sandro Penna, ma sono tanti, tantissimi i poeti che finiscono sotto la sua lente. Anche in questo, Remo è stato profondamente figlio del suo tempo, uno straordinario rappresentante di quella genia di poeti/critici che ha illuminato il percorso a tanti durante il secolo scorso.

 

Di novecentesco, Pagnanelli non aveva soltanto la passione critica e metodologica per la letteratura, in lui viveva anche un vitalissimo eclettismo, una curiosità testoriana verso l’arte in tutte le sue forme e dinamiche umane e psicologiche, storiche. Arte, in primis, quale straordinario veicolo d’indagine esistenziale, verso quei temi che svegliano l’uomo dal primo venuto sulla terra, all’ultima che nascerà ancora vivo.

 

Ed è proprio a uno dei temi umani per eccellenza, che si rivolge tutta la produzione del Pagnanelli poeta. Anzi. Non uno dei temi, ma il tema. La nostra caducità. Il bisogno di guardare nella morte per trovare l’oltre, che sentiamo scorrerci nelle vene.

 

La sua prima plaquette è del 1981. Dopo (Forum / quinta generazione). Il titolo del suo esordio dice tanto, se non tutto. E’ una dichiarazione di poetica, è lo slancio dell’uomo, del poeta, quando ama veramente: Ci incontreremo di nuovo / e sarà un modo diverso di vedersi / e di toccarsi… per riannodare / una certa storia con te, d’amore/ dopo la vita…

 

Il nome di Pagnanelli entra nel panorama italiano di prepotenza, il suo lavoro poetico e critico trova sempre più estimatori. Nessuno però sembra accorgersi di un lento e inesorabile avvicinamento al soggetto che si muove dentro ogni suo componimento. Per capire quale sia il magnete che tanto lo attira basta scorrere in successione i titoli delle sue raccolte. A “Dopo”, segue “Musica da viaggio” (1984), è poi il turno di “Atelier d’inverno” (1985), sino a “Preparativi per la villeggiatura”, uscito postumo. Il capolavoro di Remo Pagnanelli. 

 

Ogni titolo è un indizio, la spia di un’attrazione feroce, fatta di passione e intelletto, curiosità morbosa: la consapevolezza tragica che solo dentro la morte, attraverso di essa, si arrivi allo svelamento.

 

In Pagnanelli la ricerca umana e poetica, spirituale e linguistica, percorre dall’alfa all’omega ogni centimetro possibile di terra, non si ferma davanti al limite naturale dell’esistere. Perché è troppo forte la smania di conoscere e conoscersi. Perché il poeta non conosce autodifesa, semmai furore e massacro, sino a ogni conseguenza possibile. Sino ad arrivare a una poesia scritta da vivo ma già residente altrove, una poesia che acceca e prevede:

 

Mi godo questa Luce ultima / della fine senza fine. / Profonda quanto nel ritrarsi / pare scalfire. / Che non possiede, / che spossessa le cose e te, / riducendo all’osso e al bianco. / Quan’altra sotto ne dorme / che la pioggia non offusca.

 

Un infinito leopardiano, un testo che si deve proteggere e tramandare, da imparare a memoria nelle scuole di ogni ordine e grado. Questo è il vero dilemma, la vera preoccupazione. A chi affidare Remo Pagnanelli? E Beppe Salvia? E Giovanna Sicari? Facciamoli entrare nelle vite dei nostri figli, dentro le loro classi, che i loro nomi e cognomi diventino familiari come quelli dei grandi del Novecento. Perché in termini di grandezza, la loro poesia non è seconda a nessuno.

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