Privarsi del piacere. Nietzsche e l'ascetismo cristiano
Recensione del libro di Bertrand Binoche edito da EDB (72 pp., 8,50 euro)
La prima cosa curiosa è il nome. Se “ascetismo” rimanda a rinunce da monaci medievali, la parola è moderna. Appare la prima volta nel 1646 in Inghilterra, arriva in Italia nel 1761. In tedesco si fa sentire nel 1803, in Francia addirittura nel 1850. Non è ozioso scomodare le date, perché sono il termometro per misurare quanto l’ascetismo sia impopolare tra i filosofi, in prima fila a fustigare il costume della continenza del cristianesimo. Al punto da inventare una parola nuova per colpirlo. Fa anche un po’ sorridere che oggi sia sulla bocca di tutti, nella quasi unanime incoscienza, nell’allusione a stili di vita severi, sia che si parli del buddista Milarepa o di san Francesco di Assisi. Il primo a stigmatizzare l’accettazione cattolica della sofferenza è l’utilitarista inglese Bentham. Ad esempio, non si capacitava della condanna del suicidio, che costringe la vittima infelice “incatenata all’abisso della disperazione”; scrive poi parole di fuoco per Pascal, colpevole di temere “di non soffrire mai abbastanza” della sua malattia. E’ poi la volta di Kant, cui per la verità Binoche dedica solo un paio di pagine, non per questo meno istruttive: il filosofo, imbarazzato per l’attitudine all’autopunizione del suo imperativo categorico, finì per accettare l’ascesi, sì, ma dichiarando che nel suo caso era quella sublime degli stoici, e non certo dei santi cattolici. Il sentimento anticristiano si stempera solo con Schopenhauer: Binoche definisce il mondo come volontà e rappresentazione “la prima filosofia dell’ascetismo”, poco importa che, in linea con i tempi, l’autore preferisse i rigori orientali a quelli europei. Per Schopenhauer la vita è cieca volontà oscillante tra frustrazione e noia, pertanto le discipline della rinuncia sono un buon viatico per la “mortificazione premeditata” della propria volontà e dunque una via d’uscita all’inevitabile sofferenza. Passando per Feuerbach e una veloce prospettiva sull’eudemonismo, il professore della Sorbonne giunge infine a Nietzsche rimarcandone, se mai ce ne fosse bisogno, l’originalità. Friedrich scrive di ascesi in Genealogia della morale e in Al di là del bene e del male, con un occhio alla fisiologia e l’altro alla dimostrazione di quanto essa sia una patologia da “malaticci”. Ma non per questo la rovescia in un vuoto libertinismo, né in una naturale ricerca del piacere, come in Bentham. Per Nietzsche è malato chi, per un sentimento di inibizione, si riduce all’impotenza ed è un pericolo per un’umanità liberata dal senso di colpa. Egli propone per converso una nuova ascesi, di cui si sente iniziatore e primo adepto: un eudemonismo che punta a elevare il senso di potenza, piegando anche il godimento a un esercizio continuo. Nel 1883 spiega chiaramente, in una lettera, quanto intende provare sulla sua pelle. E si definisce “un santo stravagante (…) che a tutti gli altri pesi e alle altre forzate rinunce ha aggiunto il peso di un volontario ascetismo”.
Privarsi del piacere. Nietzsche e l’ascetismo cristiano
Bertrand Binoche
EDB, 72 pp., 8,50 euro