La filosofia delle lacrime
La recensione del libro di Marco Menin, il Mulino, 409 pp., 36 euro
Nel 1977, in una pagina dei suoi Frammenti di un discorso amoroso, Roland Barthes sollecitava la fondazione di una histoire des larmes: “Chi scriverà la storia delle lacrime? In quali società, in quali epoche si è pianto? Da quando gli uomini (e non le donne) hanno smesso di piangere? Perché a un certo momento la ‘sensibilità’ (sensibilité) è tornata a essere ‘sensibileria’ (sensiblerie)?”. E viene da pensare che con questo suo La filosofia delle lacrime, saggio rimarchevole, Marco Manin abbia voluto prendere alla lettera Barthes, tanto da riportare questo stesso passo nell’introduzione del suo libro. Numerosi sono gli studi sulle emozioni che si sono succeduti nel nuovo millennio, eppure, poco spazio è stato dedicato alle lacrime. Trattato a volte in maniera troppo “estensiva”, o, al contrario, troppo “intensiva” (in studi antropologici, letterari), l’argomento è sfuggito alla riflessione filosofica. Menin tenta di coprire questa lacuna lavorando a una magistrale disamina fisiologica, psicologica e morale delle lacrime, seguendo quel periodo storico che è stato sempre etichettato come il secolo della “ragione”. La sua Filosofia delle lacrime si distende infatti cronologicamente sul “lungo Settecento” francese (1650-1820 circa). Lo fa immergendosi in saggi, lettere, trattati coevi, elaborando su quello sfondo culturale il movimento di un pensiero legato alle emozioni, fatto di scarti concettuali, obiezioni, lezioni degli antichi. Sulla traccia di questa curiosità fisiologica, intrinseca all’essere umano, a volte soggiogata alla lezione stoica (l’uomo non piange), prende vita, a partire dal Seicento, una riflessione che tende ad ampliare la speculazione sul soggetto: il pianto, la passione, l’emotività, influenzano la condotta morale.
Tra studi legati al Barocco, le pagine mirabili di Robert Burton con la sua Anatomia della malinconia, Cartesio con la sua “termodinamica” del pianto spiegata in termini fisiologici, Marin Cureau de la Chambre, con il suo Charactèrs des Passions (1640), è forse il primo a circoscrivere, oltre alla natura e la causa, un vero e proprio “uso” delle lacrime, arrivando a definire una serie di “caratteri”. Il pianto detiene un ruolo comunicativo, sociale. Come Cartesio, Cureau de la Chambre, si spinge ben al di là delle dottrine umorali, ippocratico-galeniche. La sua riflessione produce una stramba tassonomia che distingue diversi tipi di lacrime. Ne esistono di volontarie e involontarie, ad esempio. Se le seconde risultano naturali, le prime possono essere vere o false, calde o fredde. Si può imparare a piangere?
Ecco qua, in nuce, tutto lo scarto tra “sensibilità” (Diderot, Rousseau) e “sensibileria”, la sua degenerazione. Le lacrime possono essere ambigue. Puro artificio. Sono una macchina retorica che commuove lettori, spettatori, in modo da educare, o pilotare, i loro sentimenti.
Marco Menin
il Mulino, 409 pp., 36 euro
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