César Aira (fotoelaborazione Il Foglio)

Il pregio di essere scrittori solo quando si scrive

Marco Archetti

César Aira non è un lanciatore di allarmi o un sottoscrittore di appelli e, soprattutto, non sogna nulla che non possa finire in un suo romanzo. Chi, tra tutti quelli che sono in circolazione, è tanto leale coi suoi lettori?

Se si potesse scrivere un articolo sullo scrittore César Aira esattamente come César Aira scrive i suoi romanzi, bisognerebbe, per prima cosa, non cominciarlo alla propria scrivania ma uscire immediatamente di casa. Quindi accomodarsi al solito bar, ordinare un caffè, aprire un quadernino – va bene a righe, ma anche a quadretti –, sfoderare una Mont-Blanc e mettersi a lavorare in uno stato di fertile deconcentrazione ispirandosi a segnali che irrompano dalla realtà senza mai discriminarli, fossero uccellini che zampettano su una ringhiera, fosse un avventore vestito da Ratto o la canzonetta olfattiva di un odore che, leggiadro, svolazzi a mezz’aria. E non si potrebbe disporre di un tempo illimitato, ma si avrebbe a disposizione giusto un’oretta. (“Come si fa a scrivere tutto il giorno?” si è chiesto Aira in una recente intervista a El País Tv. Si è subito risposto che no, non si può, anzi, bisogna affrontare di petto la noia e il vuoto, e il problema di come riempire il resto della giornata). Poi bisognerebbe scrivere lentamente, molto lentamente, in maniera così sorvegliata da non dover rileggere. Ora, la questione del non rileggersi mai, César Aira non l’ha mai sviscerata granché, per lo meno stando alle mie ricerche – ricerche che ho condotto in modo ovviamente cesarairesco, cioè repentinamente, senza un ordine preciso e senza riverificarle – e questo un po’ mi spiace, perché secondo me sarebbe interessantissimo approfondire la questione e far parlare un’ora César Aira a proposito del fatto che non rilegge se stesso, lui che ha dichiarato che quando legge gli altri, cioè i grandi classici, sente “incombere il fantasma della rilettura”, e non lo diceva come se fosse un bene. Chissà.

 

Ma torniamo a noi. Il pezzo – questo stesso pezzo che state leggendo e che avevo immaginato di scrivere come César Aira scrive i suoi romanzi – dovrebbe innanzitutto partire da César Aira ma poi dovrebbe naufragare in una divagazione dalla durata imprevedibile, anche lunga, forse lunghissima, in un certo senso addirittura sconveniente, ed essere coltissima e puntigliosa, lieve come una piuma e attraversata da un senso plumbeo del tragico eppure increspata da un’ironia pulviscolare – chi può dirlo adesso, a gioco non ancora avviato? César Aira non decide quasi mai niente prima, e noi con lui. E poi questo articolo dovrebbe eludere le aspettative di un qualunque lettore, e farlo proprio come lo fa nei suoi romanzi César Aira, lo scrittore contemporaneo più ostinato nel farsi beffa – una beffa intrisa di funambolico spirito dadà – di ogni aspetto prevedibile del racconto e di tutte le aspettative. E tutte vuol dire tutte: non solo di chi legge rispetto al testo scritto, ma dello scrittore nei confronti di se stesso. E’ questo, forse, il regalo più sofisticato di questo artista segreto, di questo spericolato che rivela e intraprende mondi con incontenibile naturalezza e che sembrerebbe saltar fuori come una stella filante da uno dei migliori romanzi di Vila-Matas (quelli meno irritanti, dunque non certo gli ultimi usciti) e che ha deciso di affidare a una scientifica gratuità ogni nuovo romanzo per una sola, grande ragione: perché egli stesso appartiene a ciò che scrive, e mai il contrario.

 

Il mondo di César Aira è il mondo di chi rimette il romanzo al centro di tutto e tutto sottomette al potere della mente come Ente Divagante, come ariosa macchina da libere esplorazioni, e accetta la scommessa di esporsi a un risultato che non potrà essere prevedibile. César Aira non è fatto per chi vuole lo scrittore in servizio permanente. “Sono uno scrittore solo mentre scrivo”, ha detto da qualche parte, e c’è da essergliene grati. Non è un lanciatore di allarmi o un sottoscrittore di appelli, né un realizzatore di trampolini per messaggio edificante. E – soprattutto – non sogna nulla che non possa finire in un suo romanzo. Chi, tra tutti quelli che sono in circolazione, è tanto leale coi suoi lettori?

Ultima cosa: l’offerta editoriale che lo vede protagonista, in Italia, non è ricchissima. Fazi e Sur sono gli editori che se ne sono occupati di più, e ringraziamo sentitamente. Ma ci si augura che qualcuno, prima o poi, abbia voglia di tradurre in italiano lo splendido “El congreso de literatura”: uscito nel 2006, racconta di uno scienziato che, sotto le mentite spoglie di uno scrittore di nome César Aira, partecipa a un congresso con l’intenzione di clonare Carlos Fuentes a partire da una cravatta che gli ha sottratto, ma alla fine il gioco non gli riuscirà e si genererà solo una calamitosa invasione di bachi da seta blu. Chi lo saprà intendere, se la godrà moltissimo – fidarsi di Roberto Bolaño, non del sottoscritto.

Di più su questi argomenti: