Freeman's. California
La recensione della rivista letteraria a cura di John Freeman Black Coffee, 240 pp., 14 euro
Nessuno più sogna il sogno americano, diciamo da alcuni anni. Esagerati che siamo. Sbagliamo, e anche grossolanamente. Sette persone su dieci, interrogate su dove siano le migliori università del mondo, rispondono ancora Stati Uniti – e se non è questo un rilevatore di integrità dell’American dream, allora nient’altro lo è. Nei fatti, naturalmente, il discorso cambia e il sogno diventa assai spesso un incubo. Tuttavia, esiste un posto in occidente dove non avvenga la medesima metamorfosi?
Il nuovo numero di Freeman’s, la rivista letteraria di John Freeman che l’editore Black Coffee porta in Italia più o meno dalla sua nascita, volendo raccontare la California, racconta quel passaggio, e tutte le cose che l’America e l’occidente a suo carico non sono più in grado di dare per possibilità. Lo sappiamo da “Easy Rider”, e da “Hotel California” (such a lovely place) e naturalmente da “California Dreamin” (I’d be safe and warm if I was in L.A), che è quello, la California, il pezzo d’America da cui sono presi la gran parte degli sfondi, i colori, le temperature, le ragazze che popolano i sogni sul paese, e le ambizioni del paese. “Per molto tempo la California è stata considerata il Valhalla degli obiettivi più audaci. L’ultima spiaggia. Il posto perfetto per ricominciare. La fine dell’orizzonte, come la chiama Joan Didion in un suo libro”, scrive Freeman nell’introduzione, prima di spiegare che, però, laggiù ci sono anche le persone vere e per loro vivere è sperimentare “una lacerazione dell’esistenza”, quella tra il reale (mai più inospitale come adesso) e l’immaginato (mai più inibito come adesso), il filmare e l’accadere; la stessa lacerazione che ha sgualcito e sgualcisce l’American dream. Chi lo sogna sono gli stessi di ieri, ancora i migranti, e tutto torna, nella scelta di Freeman’s, giacché uno dei molti racconti raccolti nel numero è firmato da Natalie Diaz, che ha definito l’immigrazione “un sognare con il corpo: immagini un futuro migliore altrove perché ci sei costretto, e quindi ti ci trasferisci; trasferisci il tuo corpo in un sogno”.
Pensiamo al mondo fino a febbraio di quest’anno. Sembrano passati eoni e invece era ieri e il futuro ci sembrava, allora, tutto volto verso la sfida dell’inclusione, dell’accoglienza, della capacità di strutturare il mondo affinché le grandi migrazioni venissero accettate e regolamentate come dato strutturale e non tamponate come emergenza, respinte come assedio. E ora? E domani? In una poesia di Maggie Millner presente nel numero, ci sono due versi che dicono bene com’eravamo fino a due mesi fa: “A volte litigavamo a proposito di quanto litigavamo” e “l’inverno aveva lo stesso aspetto dell’estate, che dava l’impressione fioca di un pianeta immobilizzato, di un pianeta a cui il peggio è già accaduto”. Riconosciamo il tedioso, annichilito mondo di prima? Sarà anche il mondo di dopo, se non sapremo fare le due cose a cui, in fondo, questa raccolta è dedicata: svegliarci e imparare a sognare sogni che siano, naturalmente, migrazioni. LA Woman, you’re my woman.
a cura di John Freeman
Black Coffee, 240 pp., 14 euro
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