Il paradigma perduto
La recensione del libro di Edgar Morin, Mimesis, 237 pp., 18 euro
La domanda del sottotitolo reca con sé qualche implicazione attuale. Può dirsi umano rassegnarsi a perdere vite per salvaguardare l’economia? Una vita giovane vale davvero più di quella di un vecchio saggio? Sarebbero state interessanti le risposte di un calibro come Edgar Morin, ma purtroppo ci ha lasciati nel 2004. Pertanto accontentiamoci dei suoi interrogativi sospesi nel vuoto. Con la consolazione di leggere tra le righe, le sue ovviamente. Morin fu antropologo, sociologo, filosofo, saggista, il tutto a modo suo.
Nella prefazione a questo libro scrive di essere un “incorreggibile autodidatta”. Cosa peraltro non del tutto vera. Innegabile invece la sua transumanza tra antropologia, cibernetica, biologia, con frequenti incursioni nel pensiero puro, anche quello ecologico. Il riferimento alla transumanza non è casuale, perché Morin inquadra la sua riflessione sull’uomo alla sua realtà naturale, anzi animale – si potrebbe dire “darwinista”. Ciò non di meno, il ritratto che fa delle sue fratture interiori, così creative, lascia senza fiato. Non si sa se vedrà mai la luce il “metantropo”, l’uomo nuovo nascituro sulle ceneri di quello vecchio, è tuttavia calzante l’analisi del sapiens. Perché proprio così lo chiama, in perfetta fedeltà ai polverosi dogmi del biologismo ottocentesco. Ma la creatura che delinea è di straordinaria complessità: l’uomo è al contempo sapiens e demens, faber e mitologico/religioso, economicus e ludens. La dimensione del gioco, della follia e della magia sono parte della sua avventura. E infatti Morin spiega che la caratteristica specifica di quest’essere che, unico, ha camminato in posizione eretta tra i primati, non è solo la spiccata intelligenza, con i suoi corollari di tecnica, linguaggio, cultura. Il sapiens “ha inventato l’illusione: l’immissione dell’universo dei fantasmi nel mondo della veglia”. Perché tutti gli animali sanno di dover morire, l’uomo soltanto rifiuta l’assoluto della morte.
Morin, proprio come il nostro Vico, lega infatti l’inizio della civiltà non all’invenzione delle armi o degli attrezzi, bensì a quella della sepoltura e dei funerali. Il caro estinto va accompagnato e bisogna celebrare il suo passaggio in un altrove arcano con riti magici, mitologici o religiosi, se preferite. Con il sapiens la morte da fine ineluttabile diventa trasformazione. La sua creatività sta insomma nel confondere le carte, nella non accettazione dell’ordine naturale. Perciò l’uomo porta disordine nella natura, e poi un nuovo ordine con la cultura e la società. La sua grandezza è nei contrasti, non nella ragione tanto idolatrata. L’attitudine all’instabilità delle pulsioni, agli affetti, all’ebbrezza e all’estasi, ha il suo lato costruttivo nell’esserci di una coscienza. Non è ancora stata elaborata un’antropologia sofisticata al punto di leggere e interpretare la complessità dell’essere umano, né alcun criterio può svelarne l’essenza. E la natura umana conserva intatto il suo mistero.
Edgar Morin
Mimesis, 237 pp., 18 euro
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