La malaluna
La recensione del libro di Maurizio Mattiuzza, Solferino, 252 pp., 17 euro
Che strana vittoria. Un morto ogni venti metri di terra e migliaia di case bruciate dal Monte Grappa fin quasi dentro all’acqua dell’Isonzo”. La Prima guerra mondiale è finita, le macerie i corpi ammazzati dei caduti coprono ogni cosa, anche l’euforia della pace ritrovata. “Siete un eroe, portate le medaglie. La gente vuole sapere”, dice un giornalista a Valentino Sbaiz, caporale di fanteria decorato sul Carso di Gorizia. “Sapere come si muore? C’è curiosità di questo?”, risponde il soldato. “No, non solo. I giorni della vittoria”. “Perché, abbiamo vinto?”. La verità è che la guerra tradisce tutti, conquistatori e conquistati, le vittime e i sopravvissuti, chi rimane conta le cicatrici che si porta dietro, le tombe su cui piangere, i figli da cercare tra i dispersi. Valentino Sbaiz, detto Tin, ha combattuto perché non aveva altra scelta, per non morire. I suoi anni in trincea, il massacro da cui si è salvato hanno contribuito a cambiare la cartina geografica dell’Europa, a stipulare trattati, a tracciare nuovi confini che però non gli appartengono. Per quelli come lui, gente abituata all’indifferenza del mondo, la pace non ha portato niente di nuovo, soltanto pane raffermo. “Se i confini si spostano coi trattati, la pellagra e la fame stanno sempre ferme sopra ai campi. Rimangono lì dove sono e ti bucano lo stomaco”. Gli ultimi saranno ultimi, e così sia. La Malaluna, il romanzo di esordio del poeta Maurizio Mattiuzza è una saga familiare, la storia degli Sbaiz, una famiglia friulana di origine slovena nata con la carestia e cresciuta con due guerre mondiali dentro casa. Da Caporetto allo sbarco in Sicilia, il libro racconta la tragedia vista dalle ultime file dell’esercito, quella combattuta da povera gente, partita per il fronte con nient’altro che scarpe sfondate e una divisa ogni giorno più larga. Tin ha due figli, soldati anche loro: Giovanni e Tinàz, “sbandati in mezzo a un esercito in fuga che sprizza fumo e bestemmie”. Tinàz sente poco e parla ancora meno: una bomba è esplosa a pochi metri dalla sua testa, il suo corpo è intero per miracolo, la sua voce rimarrà per sempre strozzata in gola. Quando comincia la ritirata, i due fratelli si ritrovano soli, di fronte a un nuovo battesimo che non promette nessuna salvezza e che li scaraventa “in mezzo a un esodo di contadini magri e disperato cui un Dio distratto ha tolto prima il pane e poi le case”. Ma la guerra non l’hanno combattuta soltanto gli uomini e i loro fucili, Mattiuzza si sofferma sulle donne, le mogli e le madri che hanno donato alla patria tutto ciò che potevano, il sangue del loro sangue, e non hanno ottenuto niente in cambio, nessuna medaglia. Luisa Sbaiz per anni è stata la moglie di un fantasma e la madre di due righe mancanti in un elenco. Di fianco al nome dei suoi due figli, l’Italia aveva scritto una parola, una soltanto: dispersi. Eppure, anche Luisa, sfollata a Livorno e lì ritrovata da suo marito, ha scritto silenziosamente la storia del mondo: “I pezzi grossi dell’esercito non le hanno dato pezzi di carta. Ha soltanto questa famiglia, difesa con i denti, strappata al destino con tutta la forza che le resta. Come l’acqua salita dalla terra fino ai rami di un albero, ogni dolore che riguardi la loro casa passa prima dal suo cuore”. Ecco cosa significa essere madre.
Maurizio Mattiuzza
Solferino, 252 pp., 17 euro
Una fogliata di libri