Anna Banti e quel grido lacerante davanti al mondo
Il romanzo più intimo e fors’anche più sofferto della scrittrice pare oggi introvabile. Il grande mercato sembrerebbe aver accantonato perfino il ricordo di questa saggista attenta alla condizione femminile e alla tematica psicologica
“Non erano le lodi che desiderava, ma un modo di scomparire affondando nella fatica”, scrive Anna Banti (ossia Lucia Lopresti) in “Un grido lacerante”, il suo romanzo più intimo e fors’anche più sofferto, perché attinge ampiamente dalla vicenda biografica. Ma questo testo, scritto quattro anni prima di morire e che si pone a chiusura della sua carriera letteraria, pare oggi introvabile. O meglio, resistono le vecchie edizioni (Rizzoli 1981) ma il grande mercato sembrerebbe aver accantonato perfino il ricordo di questa scrittrice e saggista attenta alla condizione femminile e alla tematica psicologica. Un piccolo universo clandestino e per questo in parte sommerso, che riaffiora perlopiù quando si parla di Artemisia e di Lorenzo Lotto, dunque quando si parla di arte giacché gran parte del suo interesse culturale s’intrecciò col mondo artistico e pittorico.
Un ruolo fondamentale, in tal senso, l’ebbe il marito e già maestro di Lucia, Roberto Longhi, storico e critico d’arte nonché intellettuale di spicco nel panorama italiano; s’innamorano, i due, quando Lucia frequentava la terza liceo, e si sposeranno quando lei conseguirà la sua laurea in Lettere, nel 1924. Con Longhi non prende avvio una semplice storia d’amore ma anche un indimenticabile sodalizio culturale (fonderanno infatti la rivista “Paragone”), da cui tuttavia Lucia – al di là dei romanticismi e del perpetuo affetto – sembrerebbe volersi affrancare, almeno in parte. Sua è la decisione di intraprendere una via autonoma rispetto a quella del marito, la via della scrittura: è infatti nel 1930, con la pubblicazione su “La Tribuna” del racconto “Barbara e la morte”, che nasce Anna Banti. Non più Lucia Lopresti, ma una donna nuova, scrittrice indipendente, pensatrice infaticabile.
È proprio nel romanzo “Un grido lacerante” che si possono delineare i due cammini – distinti ma mai distanti, anzi, sapientemente coordinati e mescolati – che contraddistinsero la vita di Anna Banti non solo come autrice ma anche come donna. E’ in questo testo di difficile reperibilità che si possono individuare le ambizioni, gli scoramenti e le difficoltà a vivere di una donna che ha sempre rincorso la sua indipendenza passando attraverso il gioco delle parole, vicina all’amore e dunque al marito, ma contemporaneamente da lui distante, autonoma (e la volontà di palesarsi al pubblico con uno pseudonimo che le desse autorevolezza e libertà, ne è la prova).
Una “impaurita rinunzia a vivere”, di questo Agnese – protagonista del romanzo e alter ego dell’autrice – sembra essere succube, prigioniera, oltre che di se stessa, di una realtà che non le appartiene ma nella quale è costretta a vivere – tra rinunce, incomprensioni e sensi di colpa. “Affondare nella fatica”, scomparire fisicamente per potersi cibare solo del gusto delle parole, immersa nella contemplazione letteraria e narrativa delle sue visioni – più reali che oniriche. Tutto nasce però da una domanda: “chi sono io?” si chiede la piccola Agnese, poco più che infante, e “chi sono io?” si chiede l’Agnese matura, prima di sposare il suo Maestro, e dopo la perdita dello stesso. Il fatidico interrogativo accoglie risposta soltanto nella scrittura, che non viene usata né come arma di difesa né come terapia. Non è una catarsi, quella di Agnese/Banti, ma una presa di coscienza: nel lavoro – autonomo, solitario, nascosto ai più – si cela l’essenza del piacere. Col lavoro si identifica, col lavoro si ri-conosce, attraverso le sue storie Agnese risponde a domande ancestrali che la terrorizzano ma al contempo le recano un sollievo inedito, mai sperimentato prima. E tuttavia quel “chi sono io?” nasconde anche un lacerante senso di colpa, che insozza le pagine, certo, ma ancor prima si imprime nella sottotraccia esistenziale della protagonista: la colpa origina da un sentore profondo di inadeguatezza nei confronti del mondo, come se Agnese/Banti dovesse giustificare a tutti i costi la propria diversità (traducibile in superiorità, non morale ma caratteriale e artistica) sprofondando nell’incomprensione, e quindi nella solitudine. E’ forse questa la chiave di lettura non già dell’opera di Anna Banti, ma della donna Lucia Lopresti? Vedersi riflessa negli studi e nelle parole – sviluppati rigorosamente in solitaria, lontano dallo sguardo indagatore del mondo –, arrancare di fronte alle regole della vita comune, perdere di vista la propria identità e pensare alla morte come un luogo di conforto e di liberazione, ove poter scomparire senza lasciare traccia.
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