Una fogliata di libri
Scovare un buon racconto dipende dal saperlo scovare
Paolo Sorrentino non butta via niente ed estrae conigli narrativi da Sanremo, dai miti televisivi o da una coda al supermercato. Perché leggere “Gli aspetti irrilevanti”
Paolo Sorrentino è un titano del dettaglio, un colosso dell’inavvertito che si fa essenziale, un Lucullo dell’osservazione. Al di là del fatto che si ami o no il suo cinema, è innegabile che il suo talento per il racconto dei personaggi si prenda la scena, anzi, sia forse – tout court – la scena. E come questa abilità riesca perfino a oscurare fenicotteri, giraffe e il variopinto suo oniro-zoo-corollario, e ad affermare il proprio potere nella persistenza: i suoi personaggi ti seguono anche a film finito, a volte ti inseguono, ti colonizzano, non te ne liberi facilmente.
Questo discorso vale anche per il Sorrentino scrittore, che con “Hanno tutti ragione”, “Tony Pagoda e i suoi amici” e “Gli aspetti irrilevanti” ha firmato racconti tra i più significativi degli ultimi anni. Difficile stabilire gerarchie tra i titoli, perché perfino il fratello minore, quello nato, teoricamente, da una costola (del primo, cioè il secondo) è anch’esso di una bellezza disarmante. Se si è in cerca di prove, si leggano le pagine sul mago Silvan, che sembrano uscite dalla penna di un Daniel Kehlmann meno calligrafico e più poroso, oppure il racconto nel racconto contenuto nel capitolo sanremese, pozzo di intuizione e di rivelazione interiore che è anche un manuale involontario su come si possa trasformare in letteratura qualsiasi cosa, ambiente ed essere umano.
Il podio dell’attenzione se l’è comunque sempre guadagnato “Hanno tutti ragione”, forse perché fu opera prima e nessuno se l’aspettava, forse perché finì in cinquina allo Strega (quell’anno vinse Antonio Pennacchi con “Canale Mussolini”, dopo un testa a testa con la Silvia Avallone di “Acciaio”). Ma poco male: era un bel romanzo che si avvaleva di una pimpante locomozione, di un uso della lingua libero e preciso, di una storia esemplare, e di un protagonista che cantava, non solo nel senso che era un cantante, ma nel senso che piroettava pagina dopo pagina con gli acuti giusti, esibendo un’armonia e una baldanza narrativa indubbie – forse un editor più severo avrebbe potuto sforbiciare qua e là, ma non vedo perché ci si debba, ora, ossessionare col rinvenimento di minuzie nel folto dei fienili.
La vera sorpresa l’ha riservata, semmai, una recente lettura de “Gli aspetti irrilevanti” (Mondadori, 274 pp., € 22 euro). Il presupposto che fa scaturire la narrazione è semplice ma affascinante: in collaborazione con il fotografo Jacopo Benassi e senza godere di preamboli, istruzioni per l’uso o men che meno sapere nome, cognome o età delle persone ritratte, e basandosi solo su ventidue loro fotografie, Sorrentino ha dovuto costruire altrettanti racconti che da ciascuna delle foto traessero spunto. L’editore ha poi confezionato in modo che il lettore avesse sottomano prima il ritratto (in piano medio, mai figure intere) e, a seguire, il nome del soggetto e il racconto relativo. Inevitabile: tornare a dare una sbirciata alle foto durante la lettura è tentazione cui non si resiste, soprattutto per provare a rintracciare, nelle fattezze e nelle fisionomie, quell’invisibile traccia che possa aver suggerito una frase, un’osservazione o una digressione a Sorrentino. Il quale, buzzatiano istintivo – seppur con una paletta gustativa appena più sarcastica – per i fotografati inventa nomi che meriterebbero un articolo a sé. La narrazione permette di apprezzare come l’autore non disdegni alcun materiale o spunto, lavorando con fertilità sorprendente con quel che ha sotto gli occhi ogni giorno, rifiutando di rifugiarsi nel tempo asettico e sospeso in cui lo scrittore fiacco relega di solito il se stesso che non sa guardare. Questo è invece un romanzo che si sporge, un romanzo di racconti, un romanzo che narra la vita consustanziale a tutti e che attende che qualcuno la narri, appostata in un incontro banale o in un sogno prosaico. Sorrentino non butta via niente ed estrae conigli narrativi da Sanremo, dai miti televisivi o da una coda al supermercato, con una freschezza sventata e lieta che prende gli esseri umani e li rivolta come calzini, mettendosi al servizio delle loro esistenze e di tutte le grinze della vita. Un romanzo inevitabilmente corale che rafforza in chi legge una convinzione: scovare un buon racconto dipende dal saperlo scovare, non tanto da cosa o chi si sta guardando. Ognuno di noi conosce un Aristide Perrella. Un Arcadio Lattanzio è addirittura ministro. Ma chi li ha mai raccontati? E quante portinaie abbiamo sempre incrociato, sbirciandole e passando oltre? I vertici narrativi sono Girolamo Ponzio Santagata, con la sua prodezza omicida e la sartoria riparativa. Poi Livio Casa: perché se la morte finisce – forse – è meglio così.
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