Il mago di Lublino
La recensione del libro di Isaac Bashevis Singer (Adelphi, 230 pp., 18 euro)
Yasha Mazur avrebbe potuto avere il mondo ai suoi piedi, se solo l’avesse davvero voluto. Ma come tutti i protagonisti tratteggiati da Isaac Bashevis Singer (tutte le sue opere sono state curate – e questa non fa eccezione – da Elisabetta Zevi), poco prima di raggiungere la gloria sempiterna cade miseramente. Toccando il male e la disperazione, l’angoscia e il vuoto che solo un Dio, chi lo sa quanto lontano, può riempire prestando ascolto al grido dell’uomo ferito. Yasha era osannato, benché ad applaudirlo fosse il pubblico della provincia polacca. Lui lo sapeva e con la mente vagava a Londra e Berlino, Roma e Parigi, in America. Invece era costretto a esibirsi lì, tra Lublino e Varsavia, con la speranza che prima o poi qualche grande teatro riconoscesse le sue doti. Yasha Mazur era un mago: nessuna serratura gli poteva resistere, sapeva fare tutto. Conosceva ogni trucco con le carte, di lui dicevano che se lo si rinchiudeva in una stanza la sera, sprangando la porta dall’esterno, l’indomani mattina lo si vedeva passeggiare disinvolto al mercato, e la porta della stanza era ancora chiusa. Non era un poveraccio: aveva casa e animali, granai, una stalla, un orto e due meli. Aveva una moglie, la sterile Ester, che l’adorava come se Yasha fosse l’unica ancora che la teneva aggrappata al mondo meschino che le aveva negato un figlio. E con Ester c’erano Magda, Zeftel e soprattutto Emilia. Quattro donne e un uomo – quadro che ricorre assai nei racconti singeriani – incapace di scegliere. Yasha faceva promesse a tutte, si convinceva che avrebbe potuto mantenerle, salvo poi inesorabilmente sprofondare nella più cupa depressione allorché si rendeva conto che la gioia tanto agognata era destinata a tradursi in tragedia.
C’è sempre Dio negli scritti di Singer. E’ lui il convitato di pietra, la figura con la quale il protagonista si confronta e si scontra. Ci crede, sì, ma non sa neppure lui perché. Non va in sinagoga, ma quando vi entra per caso (o perché una mano misteriosa lì l’ha condotto) si ritrova a esaminare come non mai la propria coscienza e a baciare con rara devozione i libri di qualche rabbino. Yasha è incapace di venire a capo della propria esistenza, ha sempre un altro ruolo da interpretare. “Religioso ed eretico, buono e malvagio, falso e sincero”. Progetta continuamente cose nuove con le sue donne, è perfino sincero quando lo fa. Disprezza la vecchia Polonia che non riconosce la sua arte. Poi, però, quando i piani di fuga sono definiti sin nel più insignificante dei dettagli, ecco che la domanda decisiva torna a interrogarlo fatalmente: “E’ mai possibile che io abbandoni tutto questo? E’ casa mia”. Il mago di Lublino vive la sua esistenza come se fosse sospeso su una fune, sempre in un precario equilibrio tra il bene il male, tra la moralità e la depravazione. “Non esisteva una via intermedia. Bastava allontanarsi di un passo solo da Dio per precipitare nel più profondo degli abissi”. C’è sempre un dybbuk a tormentare l’anima degli attori singeriani, perennemente posti dinanzi alla scelta che determinerà il corso dell’esistenza: scegliere il mondo o affidarsi alla speranza rappresentata dal baluginio della candela solitaria accesa nella menorah.
Isaac Bashevis Singer
Il mago di Lublino
Adelphi, 230 pp., 18 euro
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