Verso casa
La recensione del libro di Assaf Inbari (Giuntina, 340 pp., 18 euro)
Verso casa è uno splendido romanzo corale, che narra la storia del kibbutz di Beth Afikim, dagli anni Venti alle grandi privatizzazioni degli anni Novanta. Una storia di giovani pionieri, di visionari, di sognatori che a tutto possono ambire, anche se in apparenza poco sanno fare e nulla possiedono – tranne un’indomita forza di volontà.
I sette protagonisti nascono in Unione sovietica, dove si muovono in clandestinità. Sono perseguitati come pericolosi sovversivi: l’eresia sionista risulta intollerabile, agli occhi dei comunisti di Stalin. Emigrano in Palestina portando con sé, unico bagaglio, un idealismo ingenuo e quasi comico. Nel kibbutz regna un’asfissiante pervasività comunitaria e socialista, un senso dell’onestà disarmante, un disinteresse personale ai limiti dell’autolesionismo.
E’ bellissima la storia di Beth Afikim, poiché bellissima è la storia di Israele, dalla teorizzazione del sionismo ai primi pionieri, all’indipendenza dello stato, alla lotta per la sopravvivenza.
“L’assemblea generale delle Nazioni Unite decise la spartizione della Palestina. L’esercito inglese impiegò sei mesi a smantellare le sue basi, e gli arabi e gli ebrei sfuggivano al suo controllo e si uccidevano a vicenda. Beth Afikim era circondato da una recinzione di filo spinato intorno alla precedente recinzione di filo spinato; agli edifici venne assegnato un numero in attesa dei bombardamenti (così si sarebbe saputo quale edificio era stato colpito); furono scavati dei fossati di comunicazione; si fecero scorte di cibo e benzina e un ponte di botti fu costruito sul Giordano come via di fuga. ‘Se avremo uno stato, quanto tempo gli dai?’ – chiese Clara Galili a Zvi Brenner. ‘Se ci sarà. Che duri due settimane – ma almeno ci sarà’”.
Le vite dei personaggi principali, e le altre mille che si incrociano nel corso dei decenni, altro non sono che uno spaccato della storia e della società israeliana, della sua ricchezza e delle sue feconde contraddizioni. Il tono della prosa è sempre leggiadro: dolce nelle tragedie, divertito nei drammi, malizioso nelle vicende private e ironico in quelle pubbliche. La conclusione del romanzo è molto “di sinistra” (nel senso della sinistra israeliana) ma anche una sorridente presa d’atto che il mondo è cambiato, che la società si è modernizzata, che quell’universo di giovani sognatori e pionieri della prima utopia sionista è scomparso per sempre.
“Questo stato non è sorto dai miracoli, ed è importante per noi incidere nei nostri cuori che non è con un miracolo che ne assicureremo l’esistenza negli anni a venire. In duemila anni di esilio il nostro popolo aveva perso il senso dell’indipendenza e della sovranità e attendeva miracoli e salvezza dal Cielo. La nostra generazione di pionieri si è ribellata contro il tradizionale fatalismo ebraico, è tornata alla storia e ha mutato la sua direzione. (…) Saremo in grado di costruire una nazione da un miscuglio di gruppi etnici e di tribù che si sono radunate qui da tutti gli angoli del mondo?”.
Assaf Inbari
Verso casa
Giuntina, 340 pp., 18 euro
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